On this week #27: Sebastian Vettel | Pirelli

On this week #27: Sebastian Vettel

 

Il 3 luglio 1987 nasce a Heppenheim, in Germania, Sebastian Vettel. Quattro titoli mondiali in Formula 1, 53 Gran Premi vinti, 57 pole position e 122 piazzamenti sul podio: i numeri fanno del tedesco uno dei più grandi piloti della storia della massima competizione automobilistica. Vettel detiene ancora il primato del pilota più giovane a laurearsi campione del mondo (nel 2010, all'età di 23 anni, quattro mesi e undici giorni) mentre quello del più giovane a conquistare un Gran Premio gli è stato tolto da Max Verstappen, che gli è pure succeduto nel cuore della Red Bull, la squadra con cui Sebastian ha ottenuto i successi maggiori.

Le quattro ruote hanno sempre accompagnato la vita di Sebastian, sin da bambino. A tre anni e mezzo girovagava in kart nel cortile di casa, per la gioia del padre Norbert, falegname di professione ma grande appassionato di kart, tanto che a sette anni fece debuttare il figlioletto nelle prime competizioni. Il suo talento fu subito brillante, visto che attirò l'attenzione degli scout della Red Bull, che lo misero sotto contratto quando aveva undici anni: una fortuna, perché certamente la famiglia non avrebbe potuto sostenerne la carriera a lungo, considerato anche il fatto che Sebastian era il terzo di quattro figli, ma la scelta di puntare su di lui avrebbe dato i suoi frutti.

Il successo a mani basse nel campionato tedesco di Formula BMW ADAC del 2004 lo fece avvicinare alla Formula 1, prima come collaudatore della Williams motorizzata BMW e poi alla Sauber, diventata nel frattempo squadra ufficiale della casa tedesca, anche se la sede e il nocciolo duro restavano in Svizzera. Fu con il team di Hinwil che Sebastian esordì nelle libere di Istanbul nel 2006, facendo segnare il miglior tempo e meritandosi i complimenti del suo idolo Michael Schumacher. Il debutto vero e proprio avvenne però, a sorpresa, a Indianapolis il 17 giugno 2007, in sostituzione di Robert Kubica, ancora indolenzito dopo lo spettacolare incidente di una settimana prima a Montreal: settimo in griglia e ottavo al traguardo, quel diciannovenne biondino fece subito sensazione, diventando il pilota più giovane a conquistare un punto iridato. Visto che però la BMW non poteva offrirgli un posto da titolare per la stagione successiva, Helmut Marko non si fece scappare l'occasione e riportò subito Sebastian a casa Red Bull, dandogli un posto da titolare nello junior team, la Toro Rosso. Fu la sua fortuna: da lì iniziò un percorso che lo avrebbe portato in cima al mondo.

Il 2008 fu illuminato dall'incredibile fine settimana di Monza, caratterizzato da una pioggia spesso torrenziale. Sul bagnato, Sebastian il sabato riuscì a conquistare la pole position e la domenica rimase in testa alla gara praticamente dal primo all'ultimo giro, con la sola parentesi dei pochi giri successivi al pit-stop, dando alla Toro Rosso la prima vittoria in Formula 1, perdipiù in anticipo rispetto alla sorella maggiore Red Bull. Quella gara passò alla storia anche perché fu l'unica volta che un motore Ferrari vinceva un Gran Premio senza essere montato su una monoposto di Maranello.

L'ottavo posto nel mondiale 2008 valse a Sebastian la promozione in Red Bull, ripagata con il primo successo nella storia della squadra di Milton Keynes, a Shanghai in una gara ancora segnata dalla pioggia. Nel 2009 arrivarono altre tre vittorie e il secondo posto nel campionato Piloti ma le gerarchie nel team non erano ancora consolidate, visto che il compagno di squadra Mark Webber, con cui c'erano già state scintille in Toro Rosso due anni prima, non sembrava affatto propenso a farsi battere dal più giovane collega.

Il 2010 fu un'annata epica per la Formula 1: tre squadre e sei piloti si trovarono a lottare per i titoli iridati e all'ultima gara ce n'erano ancora quattro – in ordine di classifica Fernando Alonso, Webber, Sebastian e Lewis Hamilton – che potevano laurearsi campione del mondo, mentre la Red Bull si era aggiudicata il titolo Costruttori con una gara d'anticipo, in Brasile. Ad Abu Dhabi il pilota tedesco fece tutto alla perfezione – pole position e vittoria - mentre la Ferrari si suicidò con un errore di strategia che è rimasto negli annali, permettendogli così di vincere il titolo.

Molto più semplice il cammino l'anno successivo, grazie ad una Red Bull che aveva trovato negli scarichi soffiati la soluzione tecnica vincente: undici vittorie, altri sei podi e quindici pole position.

Al contrario, enormemente più irta di difficoltà fu la strada verso il terzo titolo, quello del 2012. Di nuovo, l'avversario più irriducibile fu Fernando Alonso, per il quale Vettel stava diventando una nemesi. Fino alla pausa estiva, la regolarità di Fernando e della Ferrari sembrava poter avere la meglio su una Red Bull più di una volta fermata da problemi di affidabilità ma poi la musica cambiò e Vettel infilò una serie di risultati che lo portarono in Brasile, sede dell'ultima gara, con un vantaggio di 13 punti sul rivale. Nonostante il brivido provocato da una collisione con Bruno Senna al primo giro, il vantaggio fu sufficiente visto che Vettel riuscì comunque a piazzarsi sesto mentre Fernando non andò oltre il secondo posto: per tre punti il titolo rimase in casa Red Bull. Seguendo la logica degli anni dispari facili dopo i pari difficili, il 2013 fu una passeggiata di salute, se confrontato alla stagione precedente: 13 vittorie, 15 pole position e 16 piazzamenti sul podio in 19 gare non potevano non portare al quarto titolo iridato.

L'invincibile macchina da guerra della Red Bull cominciò però a perdere dei pezzi, con l'addio di Mark Webber che non ne poteva più di un compagno di squadra così vorace da non lasciarlo vincere nemmeno quando la squadra aveva dato istruzioni chiare: l'episodio della Malesia rivelò un Sebastian meno angelico di quando molti pensassero, lasciando intravedere delle crepe che sarebbero diventate più profonde nelle stagioni successive.

Partito un australiano ne sarebbe arrivato subito un altro, Daniel Ricciardo che, con una sfrontatezza simile a quella che aveva avuto Sebastian con Webber nel 2009, cominciò a prendersi la scena in casa Red Bull. Nel primo anno dell'ibrido, Ricciardo fu l'unico ad aggiudicarsi tre Gran Premi per una squadra che non fosse la Mercedes. Il vento era cambiato e la stessa Red Bull si dimostrò cinica e realista: era giunto il momento per Vettel di cambiare aria. E quale miglior destinazione di quella Ferrari in cui l'idolo del Sebastian bambino, vale a dire Michael Schumacher, era ancora rimpianto come mai, soprattutto dopo la fine intossicata dell'era Montezemolo e del turbolento addio di Alonso? La favola sembrava apparecchiata: un pluricampione del mondo tedesco arriva a Maranello per riportare la Ferrari in vetta al mondo, un copione potenzialmente da Oscar.

Eppure, i sei anni di Vettel ferrarista non si sono chiusi con il lieto fine. È vero, sono arrivate le vittorie (14: solo Schumacher e Lauda hanno vinto più Gran Premi) e anche l'affetto dei tifosi ma c'è stato sempre qualcosa che è mancato per completare il cerchio. In particolare, in due stagioni, il 2017 e il 2018, la Scuderia aveva tutto per vincere il titolo ma ha mancato l'obiettivo: vuoi perché la corsa degli sviluppi contro un avversario formidabile come la Mercedes era stata persa, vuoi perché Sebastian si era fatto battere soprattutto mentalmente dal grande avversario, Lewis Hamilton. Alcuni errori imperdonabili come le partenze di Singapore 2017 e Monza 2018, o quelli di Baku 2017 e Hockenheim 2018 – arrivati in momenti topici del campionato – sono rimasti come macchie nella carriera di Sebastian, instillando il dubbio nella squadra che non fosse il nuovo Michael ma solo un suo epigono. Il tutto in una Ferrari che stava ancora cambiando pelle dopo la scomparsa repentina di Sergio Marchionne. I dubbi crebbero nel 2019 quando il nuovo astro nascente, Charles Leclerc, si prese d'impeto la ribalta rossa appena al suo secondo anno in Formula 1. Quell'anno Sebastian riuscì ancora a vincere una gara, a Singapore, ma la stagione fu in un certo senso lo specchio del 2014: allora era stato Ricciardo a determinare il divorzio, stavolta era stato Charles.

Il rapporto con la Ferrari sarebbe durato un anno ancora. La strana stagione 2020, partita in ritardo causa COVID, fu vissuta da separato in casa perché nei mesi del lock-down a Maranello avevano già deciso: bisognava voltare pagina e a Sebastian fu detto che poteva cercarsi un'altra squadra, visto che la scelta era di riportare uno spagnolo a Maranello, Carlos Sainz. Alla fine di quella stagione non era ancora pronto a dire basta e accettò la corte di Lawrence Stroll: dopo il blu Red Bull e il rosso Ferrari ecco il verde Aston Martin. Con la squadra di Silverstone, Sebastian colse un solo piazzamento sul podio (Baku 2021) prima di scegliere il ritiro a fine 2022.

Tutti i suoi colleghi gli resero omaggio ad Abu Dhabi, riconoscendogli non soltanto il valore sportivo ma, soprattutto, quello umano perché su quel piano dubbi non ne ha mai suscitati. Sebastian è sempre rimasto il ragazzo semplice partito da Heppenheim e non è un caso che la famiglia che si è costruito e di cui ha sempre difeso la privacy con grande energia è nata da un amore adolescenziale con la compagna e poi moglie Hanna. La sua più grande vittoria è stata forse il profondo amore per lei e i figli: considerava il miracolo della loro nascita e l'inaspettata scomparsa del suocero come promemoria dei fatti di vita e di morte che l'umanità deve affrontare. Col tempo, in Sebastian è cresciuta la consapevolezza di poter sfruttare la grande visibilità acquisita con i suoi successi per promuovere cause molto più grandi di quelle del mondo delle corse, lavorando sia in pista che fuori su tematiche legate alla sostenibilità ambientale, alla diversità e all'inclusione.

Il richiamo delle corse però è sempre lì, in agguato: non è un caso che quest'anno si sia tornati a parlare di lui come un potenziale candidato a sostituire Hamilton in Mercedes o che abbia fatto un test con la Porsche che milita nel WEC. Pressoché impossibile rivederlo sulla griglia di partenza di un Gran Premio di Formula 1 ma non è da escludere che ciò accada in altre competizioni. Perché all'adrenalina che le corse danno è difficile rinunciare così facilmente.