Tutto il sole del mondo
Dopo che Francesco I d'Austria gli ebbe commissionato la costruzione di una strada che collegasse la Val Venosta - e quindi Vienna - direttamente con Milano, l'ingegner Carlo Donegani realizzò che per riuscire nell'impresa avrebbe dovuto ricorrere non solo alle sue abilità di scienziato, ma pure al suo spirito d'artista: il progetto di rendere carrabile il muro di roccia e neve dello Stelvio, 2758 metri sopra il livello del mare, richiedeva un grosso sforzo di immaginazione. In quella sinfonia di gole e strettoie, alcuni tornanti semplicemente non avrebbero potuto poggiarsi sul terreno; la nascente strada poteva essere sospinta verso l'alto solamente una curva alla volta, aiutandola con massicciate di pietre e mattoni.
Nel diario tenuto dal fratello del Donegani durante i lavori si legge che sul versante altoatesino dello Stelvio “la natura sembrava avesse raccolto i maggiori ostacoli per opporsi all'aprimento di una strada”. Oltre 2000 uomini furono impiegati contemporaneamente, 48 il numero di tornanti necessari per collegare Prato allo Stelvio al passo. Dopo appena tre anni l'opera venne inaugurata, per la soddisfazione dell'imperatore austriaco. La strada aveva un ruolo strategico fondamentale, al punto che, per consentire la transitabilità 365 giorni all'anno, in corrispondenza di ogni chilometro risiedeva un addetto incaricato di ripulire il fondo stradale da neve e ghiaccio. Il posizionamento al confine tra Impero Austro-Ungarico e Regno d'Italia, rese inoltre lo Stelvio scenario di aspre battaglie durante la Prima Guerra Mondiale, poi, dopo l'espansione italiana, il passo perse la sua rilevanza geografica. Sarebbe stato riscoperto molto presto, in tutt'altra veste, grazie a un mezzo di trasporto che ai tempi dell'ingegner Donegani non era ancora stato inventato.
Il Giro d'Italia affrontò lo Stelvio per la prima volta nel 1953, penultima tappa dell'edizione 36 della corsa rosa. A Bolzano, alla partenza, Hugo Koblet aveva quasi due minuti di vantaggio su Fausto Coppi. Poi cominciò la salita. “La fatica alla quale gli atleti erano chiamati – scrisse Orio Vergani sul Corriere della Sera – si annunciava massacrante: aggettivo massiccio, ma che è l'unico adatto per definire lo sforzo orrido e forse addirittura inumano richiesto ai corridori. Fatica inumana nella salita e rischio pauroso nella discesa: prima una gara di camosci e di stambecchi; poi, nella discesa, un confronto fra paracadutisti per calare dal tetto nevoso dello Stelvio sino ai prati del fondovalle di Bormio”.
Coppi se ne andò tutto solo, “in una delle ore più gravi della sua vita, nella solitudine disperata del proprio sforzo, lassù dove scricchiolano i ghiacciai”. Vinse tappa e Giro d'Italia, il suo ultimo, a 34 anni. Le foto del Campionissimo tra i muri bianchi dello Stelvio, con la scritta “W Coppi” incisa nella neve, sono tra le più famose della storia del ciclismo.
Un altro Fausto - il bresciano Bertoglio - vinse il Giro sullo Stelvio, nell'edizione che il direttore della corsa Vincenzo Torriani fece terminare, caso più unico che raro, in cima al secondo valico stradale più alto d'Europa (solo l'Iseran, in Francia, supera in altitudine lo Stelvio). Lo scalatore spagnolo Galdós vinse quell'ultima tappa, ma non riuscì a strappare la maglia rosa a Bertoglio. Cinque anni dopo, l'impresa di difendere il primato lungo i 25400 metri dello Stelvio non riuscì a Wladimiro Panizza, che fu staccato da Jean-René Bernaudeau e dal suo capitano Hinault, alla prima di tre vittorie al Giro, in una giornata che ebbe addosso “tutto il sole del mondo”, come scrisse Gian Paolo Ormezzano su La Stampa. “Bernard Hinault ha vinto il Giro d'Italia secondo i canoni del ciclismo nuovo, che al professionista impone la rinuncia all'epica e il matrimonio con la logica”.
Nell'epoca recente sullo Stelvio si è esaltato Pantani (vinse la tappa dell'Aprica nel 1994) ed è andato in crisi Basso (perse 42 minuti nel 2005), molti avrebbero volentieri evitato il gelo e la rarefazione dell'altitudine, mentre qualcun altro avrebbe voluto scalarlo con tutto il cuore: nel 1984, quando gli organizzatori decisero discutibilmente di cancellare il passaggio sulla Cima Coppi per cattive condizioni climatiche, Laurent Fignon era pronto ad allearsi con i tornanti per mettere a distanza di sicurezza Francesco Moser, il futuro vincitore di quell'edizione.
Quando è percorribile (generalmente da maggio a ottobre, con non rare interruzioni) la salita verso lo Stelvio è presa d'assalto da ciclisti di ogni calibro ed estrazione, cui il gigante offre la possibilità di entrare nel mito, o quantomeno di scoprire qualcosa di più su se stessi, perché qualunque cosa sia il destino, abita nelle montagne sopra la nostra testa . Nel recente “A 48 tornanti dal paradiso” (Ediciclo Editore, 2017), il giornalista Stefano Scacchi racconta curva dopo curva l'ascesa a quella che definisce “una Fortezza Bastiani al contrario: non roccaforte dove attendere, ma castello da sfidare per combattere i propri limiti”.
La prima curva – che nella numerazione ufficiale è la numero 48, la scansione dei tornanti è pensata un conto alla rovescia - è a sinistra, e introduce a un primo tratto lungo e pedalabile, stretto tra i boschi, piuttosto buio. Superata Trafoi, quarto tornante, lo scenario cambia, si apre ai rivoli e alle nevi del monte Ortles. Si intravede il passo, più in alto. Una luce sempre meno timida comincia ad illuminare la fatica crescente. Lo Stelvio, a differenza di molte altre salite alpine, sale regolare; le pendenze sono elevate (media 7.25%, massima 11%) ma costanti. L'effetto, scrive Scacchi, è quello di “un palazzo reale senza segrete, ma solo saloni da ballo e cortili”. La strada è stata immaginata come un'arrampicata sinuosa, senza strappi, il che per chi pedala si traduce in nessuna possibilità di rifiatare.
Gli ultimi 5 chilometri della Strada Statale 38 possono non finire mai; i tornanti finali sono ravvicinati, una scalinata a chiocciola verso il valico. L'ultimo è un semicerchio con terrazza panoramica, la vista si apre sulle valli e su una discesa lungo la quale, mistero peculiare del ciclismo, è inevitabile provare invidia nei confronti di chi ancora sta scalando il capolavoro dell'ingegner Donegani. Fu definito “progettista dell'impossibile”, l'imperatore Ferdinando gli conferì nel 1839 i titoli di Cavaliere dell'Impero Austriaco e Nobile del Monte Stelvio. Morì sei anni dopo, qualcuno sostiene per cause legate agli sforzi fisici intrapresi durante la realizzazione dei suoi immaginifici progetti alpini.