Più di una rivalità
Tutte le immagini fanno parte del patrimonio storico aziendale conservato nell'Archivio Storico della Fondazione Pirelli www.fondazionepirelli.org
Due campioni, un Paese diviso a metà e una borraccia in mezzo a loro. Fausto Coppi e Gino Bartali, il Galibier, il Tour de France del 1952 e quella bottiglia d'acqua che passa dalla mano di uno in quella dell'altro, senza che nessuno abbia mai veramente scoperto, con assoluta certezza, chi la diede e chi fu a riceverla. Fausto Coppi e Gino Bartali sono la storia del ciclismo italiano. Campioni straordinari capaci di infiammare un decennio abbondante di corse, dividendosi otto Giri d'Italia (cinque per Coppi e tre per Bartali) e quattro Tour de France (due a testa). Una rivalità che definire tale è riduttivo e si celebra ogni anno, nel mese di marzo, con la corsa a tappe a loro intitolata, la Settimana Internazionale di Coppi e Bartali.
Gino Bartali, di cinque anni più grande, era un uomo all'antica, fortemente impregnato di valori cattolici, Fausto Coppi viveva in uno spirito di laicità decisamente più avanti rispetto ai suoi tempi. Se il primo era l'uomo perfetto per la Democrazia cristiana, il secondo fu scelto dal Partito comunista come suo emblema e mise in imbarazzo la parte più moralista del Paese con la sua relazione con la Dama Bianca Giulia Occhini. Prima ancora, però, Fausto era stato un soldato durante il fascismo, mentre Gino si era rifiutato di servire Mussolini e con la sua bicicletta aveva percorso migliaia di chilometri avanti e indietro tra Assisi e Firenze nascondendo nei tubi importanti documenti falsi che avrebbero salvato le vite di 800 ebrei.
La rivalità tra Coppi e Bartali cominciò al Giro d'Italia del 1940, quando i due erano ancora compagni di squadra alla Legnano. Bartali era il capitano, Coppi – che aveva solo 20 anni – uno dei suoi gregari. Ma quando, in una tappa, Gino restò attardato, Fausto – su suggerimento della sua squadra – non si fermò ad aspettarlo. I ruoli tra i due si invertirono, e quando fu Coppi a rischiare di ritirarsi per dei terribili crampi sulle Alpi, Bartali lo spronò a non mollare, gettandogli addosso della neve per rinfrescarlo. Coppi avrebbe vinto quel Giro d'Italia, Bartali avrebbe dovuto attendere sei anni e la fine della Seconda Guerra Mondiale per avere la sua rivincita.
Con un Paese profondamente lacerato dal conflitto e una pace ancora troppo fresca e fragile, Bartali riuscì in un'altra impresa eroica, vincendo il Tour de France del 1948 e contribuendo – secondo la vulgata popolare – ad evitare una guerra civile innescata dall'attentato subito da Palmiro Togliatti. Intanto Coppi aveva lasciato la Legnano per accasarsi alla Bianchi, trasferendo la rivalità su un altro piano, quello di due squadre e due costruttori di biciclette impegnati a contendersi il primato mondiale nel settore. Fausto e Gino continuavano a guardarsi con sospetto per strada, continuavano a interpretare due stili di vita diametralmente opposti, e si marcavano a vista, mettendo talvolta la sconfitta dell'altro davanti alla propria vittoria. Accadde questo al Mondiale di Valkenburg del 1948. Bartali, ancora infuriato per l'esclusione dalle convocazione nell'anno precedente, non poteva tollerare di perdere dal rivale. Coppi, dal canto suo, si preoccupava di non dare vantaggi a Gino. La finirono entrambi ritirati e squalificati per due mesi (poi ridotti a uno) dalla Federazione.
Gli anni d'oro di Bartali, ormai 34enne, stavano terminando. Dal 1949 il numero delle sue vittorie stagionali cominciò a diminuire mentre Coppi avrebbe centrato due doppiette Giro-Tour (1949-1952), un'altra Corsa Rosa (1953), un Mondiale (nello stesso anno) e un Giro di Lombardia (1954) con la Bianchi divenuta nel frattempo Bianchi-Pirelli. I due si sarebbero ritrovati a sei anni di distanza dal ritiro di Bartali, quando Coppi, ormai quarantenne, decise di chiudere la carriera alla San Pellegrino Sport, squadra appena fondata dall'amico-rivale. Fu con quella maglia che partì verso il Burkina Faso (all'epoca Alto Volta) per correre il criterium di Ouagadogou. «Tornerò con un leone», disse prima di partire, «voglio impagliarlo e regalarlo a Bartali». Tornò con la malaria, i medici non lo capirono, lui sottovalutò i sintomi e fortemente febbricitante si recò allo stadio di Genova per assistere alla partita tra il Genoa e il suo Alessandria e vedere dal vivo i primi passi di colui che sarebbe diventato il “Golden Boy” del calcio italiano, Gianni Rivera. Sarebbero stati la sua ultima corsa e la sua ultima partita. Candidò Cannavò avrebbe raccontato dell'ultimo saluto di un Bartali piangente nella camera ardente di Coppi: «È incredibile, è incredibile». Perché quella che agli occhi del mondo sembrava una rivalità insanabile, era stata innanzitutto la storia di una grande amicizia che Bartali, rivolgendosi al compagno perduto, descrisse così: «Io e te ci si voleva bene. Gli altri ci hanno imposto per anni la parte del cane e del gatto – furono le parole di Bartali - te ne sei andato nella tua ultima fuga. Ora capisco quanto ti volevo bene. Ti sei portato via una parte di me: venti anni di battaglie e quanto altro. Mi sento più vecchio. Pace a te, Fausto: che nessuno ha mai chiamato vecchio».