Il muro transcontinentale
A Geraardsbergen c'è un muro. O meglio, a Geraardsbergen c'è il Muro, l'unico degno dell'articolo determinativo. Almeno l'ultimo, da un po' di tempo a questa parte, e chissà per quanto. E' un muro diverso dal solito, quello di Geraardsbergen: un muro che non divide ma trasporta, proietta, un muro che spinge verso l'alto fino a un panorama basso ma altissimo, quantomeno in senso relativo. Non è verticale, anche se sembra, il Muro di Geraardsbergen, non di mattoni ma di pavè, contornato d'erba anzichè di filo spinato. Racconta storie che si sviluppano, questo Muro, laddove gli altri muri le storie le interrompono. Il Muur di Geraardsbergen è un luogo noto a chiunque mastichi anche solo due bocconi di ciclismo, ma la storia che comincia a raccontarsi da questo chilometro di pavè alla fine del mese di luglio è meno nota, più lunga, altrettanto affascinante. E' una storia di muri sgretolati, di frontiere infrante come se non ci fossero e come non dovrebbero nemmeno esserci, nell'idea di Europa che pare ormai sulla via del tramonto. Una storia di resistenza e di conoscenza, di sfida contro se stessi e contro quella paura che porta innalza i muri.
Non è un caso, insomma, che la PEdALED Transcontinental Race parta proprio da un muro, o meglio, dal Muro. E' una scelta che omaggia la storia di un ciclismo oggi così lontano da queste avventure, ma non così differente ai suoi albori, ed è una scelta che indica una direzione. "Questa esperienza serve a sgretolare i muri e la paura del diverso, a conoscere e conoscersi, scambiare il proprio portato con quello che ha da donarti un territorio sconfinato come un continente". Con queste parole, un anno fa, mi presentava la Transcontinental Race colui che l'ha ideata, Mike Hall. Se fosse stato anche quest'anno nel centro di Geraardsbergen alla partenza, probabilmente Mike avrebbe espresso gli stessi concetti, ma stavolta non c'era, e non ci sarà. Perchè la Transcontinental Race no.5 si sta correndo in una condizione nuova, inedita e triste. Ad osservarla, per la prima volta, non c'è più lo sguardo curioso di Mike Hall, morto in sella a fine marzo in Australia, mentre disputava una competizione analoga, la Indian Pacific Wheel Race.
Era partito per gareggiare, per sfidare record e fatica come suo solito, ma questa volta non è più tornato. La sua morte, però, ha lasciato un segno quantomai tangibile in questa comunità allargata di pedalatori estremi e spettatori creativi: un'ispirazione. #BeMoreMike è stato l'appello diventato presto contagioso in ogni continente. L'unico modo per proseguire sulla strada tracciata da Mike, che in realtà non è mai stata una strada tracciata, era pedalare, guardarsi intorno, conoscere e conoscersi, infine sfidarsi.
Così la Transcontinental è ripartita, non senza difficoltà, ma come avrebbe voluto il suo ideatore. Non si tratta di un'interpretazione spirituale. Lo aveva detto esplicitamente alla direttrice di corsa, e sua compagna di vita, Anna Haslock in uno di quei dialoghi del genere "se succedesse...". La Transcontinental è ripartita con un'edizione di passaggio: sul percorso ideato da Mike Hall, ma con una corsa gestita da uno staff nuovo, allargato a coprire quella totalità di idee e competenze che fino a pochi mesi fa gravavano intorno a una persona sola. E' ripartita coinvolgendo nuovi volontari ed ex-partecipanti nella gestione, cambiando i nomi e i volti, ma non lo spirito.
235 partecipanti individuali e 29 coppie. Una schiera di partenti sorprendente, non tanto nel numero (che è chiuso) ma nei curriculum. Non c'è "la Macchina" Kristof Allegaert, vincitore di tre edizioni su quattro, e addirittura nessuno dei concorrenti è mai salito sul podio nelle Transcontinental precedenti. Dalla notte di Geraardsbergen, illuminata da torce e tifo, i ciclisti sono partiti verso il primo dei quattro control points previsti dal tracciato, gli unici "punti fermi" di una corsa che lascia totale libertà all'individuo nella scelta delle strade, che in genere avviene in nottate di studio nei mesi precedenti. Neanche 500 chilometri e il primo timbro sulla brevet card è in Germania, nei pressi dell'orrorifico castello Schloss Lichtenstein, che pare uscito da un Frankenstein neogotico. Sono solo le prime salite, ma servono a scaldare la gamba verso il secondo punto, ben più ostico: il Monte Grappa. Ossario di guerra, rifugio dei partigiani, terreno di scontri al Giro d'Italia, il Grappa accoglie per la prima volta la Transcontinental salendo da Semonzo, per poi scendere con un'ampia e sorprendente deviazione verso nord est.
Il terzo timbro è in Slovacchia, a Tatranská Poljanka, e viene facile immaginare quanto si sia divertito lo stesso Mike Hall nello scovare (ovviamente pedalando) questo passaggio sorprendente. L'est europeo è un classico della corsa, per alcuni il suo marchi di fabbrica, ma gli Alti Tatra sono una catena inedita, ideale per immettersi nei Carpazi, grandi protagonisti di quest'anno. Prima di scendere a sud, infatti, resta l'iconico passaggio da Transfăgărăşan in Romania, lungo quella che per tanti cicloamatori è "la strada più bella del mondo". Da lì, a quasi 3000 chilometri dal via, resta soltanto il traguardo da raggiungere, ma non è esattamente dietro l'angolo. Dopo quattro arrivi in Turchia, la Transcontinental no.5 si conclude a Meteora, in Grecia: un antichissimo complesso di monasteri "sospeso nel cielo", come dice il suo nome, forse un po' più vicino allo sguardo di chi l'arrivo ha voluto che fosse qui.
La follia della PEdALED Transcontinental Race si intuisce immediatamente leggendone il percorso, si nota con evidenza mettendosi davanti a un mappamondo. Eppure in questa avventura di folle c'è davvero poco. Lo spirito della corsa è più umano che mai, è lo stesso che muove il ciclismo sin dalle sue origini. Un'impresa così titanica ha un regolamento di dieci righe, che potrebbero essere sintetizzate anche solo dall'ultima: "Pedala nello spirito dell'autonomia e dell'uguaglianza". Il motore della Transcontinental è la fiducia, verso se stessi, gli avversari e l'umanità sconosciuta che si incontra. Il suo senso sta in un racconto cieco, negli spettatori che non hanno immagini ma sono soltanto "dotwatchers": seguono i puntini dei rilevatori satellitari che si muovono sulla mappa.
Una narrazione che arriva solo dalla prima persona dei protagonisti, dal flusso di #TCRNo5 sui social e dai gruppi di discussione in nove lingue diverse che riuniscono questa comunità globale. Uniscono i puntini a chi guarda i puntini. La Transcontinental è una gara, una storia, un'avventura: per tutti e per ciascuno in percentuali diverse. Un flusso quasi infinito a cui abbandonarsi senza farsi frenare da frontiere, muri o dubbi. Più che il regolamento, è una delle risposte alle FAQ della corsa a spiegarla meglio di qualsiasi altra cosa: "Cosa succede se mi perdo?" - "Ritrovati".