Pirelli: pneumatico che vince non si cambia
Il mito dei fratelli Rodriguez è ancora intatto: poche coppie di fratelli hanno lasciato il segno nei Gran Premi; Pedro e Ricardo, minore di due anni e dotato di un maggiore talento, irruppero sulla scena motoristica internazionale negli anni Cinquanta e subito lasciarono il segno. Velocità pura e una grande versatilità li accompagnarono fino alla Formula 1® ma anche a primeggiare nelle gare di durata. Gli Hermanos Rodriguez precipitarono il Messico nell'amore smisurato per le corse. Il loro era istinto puro: questione di geni, forse, dato loro padre era un motociclista acrobatico.
La forza di questa epopea portò il Mondiale F1® a Città del Messico nel 1963, per corrervi con regolarità fino al 1970. Otto edizioni: sette vincitori diversi. Iniziò Jim Clark a trionfarvi nell'anno del suo primo titolo iridato; poi Dan Gurney e Ritchie Ginther, Surtees e di nuovo Clark, Graham Hill e Danny Hulme. Ultimo, nel 1970, Jacky Ickx con la Ferrari. Poi l'oblio. Colpa della scarsa manutenzione che non riusciva a mantenere efficace e sicuro un circuito all'insegna della velocità. Il lungo rettilineo dei box, preceduto dal lungo tornante della Peraltada, richiedevano monoposto non troppo cariche aerodinamicamente. Le sconnessioni dell'asfalto, alle alte velocità, erano particolarmente pericolose. Il Circus si disamorò della sede messicana e seguirono quindici anni senza GP. Quando il Mondiale fece ritorno a Mexico City era il 1986 e si era in piena epoca turbo. Monoposto da un migliaio di cavalli in qualifica mettevano in scena alcune delle gare più grintose di sempre. Il circuito intitolato ai Fratelli Rodriguez si ripresentò tirato a lucido per rientrare nel giro grande delle corse.
Quel 12 ottobre 1986, pochi ricordavano forse che il GP del Messico aveva una solida tradizione di prime volte e di fatti destinati a entrare nella storia. Nel 1964 John Surtees non vi aveva vinto (vi sarebbe riuscito due anni più tardi) ma vi aveva conquistato il suo unico titolo iridato. Del 1965 fu anche la prima vittoria iridata dell'americano Ritchie Ginther, al volante di una Honda. Ma in quel 1986 stranezze come queste erano difficilmente prevedibili: il campionato era preda delle Williams Honda che si disputavano il titolo Piloti (quello Costruttori era già al sicuro) nella grande lotta in famiglia fra Mansell e Piquet. Prost e Piquet erano i loro unici possibili avversari, e per entrambi l'appuntamento con la vittoria era già scattato da tempo. Nessuno, in quella domenica scintillante nell'aria ripulita da un vento teso, degnava di un briciolo d'attenzione la Benetton e il suo giovane pilota Gerhard Berger. E faceva male.
Il tema di prove e qualifiche, quell'anno, era stato il consumo elevato dei pneumatici. L'asfalto molto abrasivo e irregolare minacciava strategie complesse. L'ingegner Turchetti della Pirelli, interrogato al via su quanti pit-stop sarebbe stati necessari per i pneumatici italiani, se la cavò con un curioso ‘Svariati'... La gara, invece, decise per qualcosa di molto diverso. I pneumatici soffrivano, sì: ma quelli della Goodyear. Senna con la Lotus, Mansell e Piquet con la Williams, Prost con la McLaren: tutti iniziarono una serie di soste ai box. Berger, invece, guidava sicuro la sua multicolore Benetton e ai box non ci andò proprio. Le sue Pirelli durarono tanto da consentirgli di non effettuare neanche una sosta, regalando a lui e al team italo-inglese la prima vittoria di due carriere che sarebbero state lunghe e di grande successo.
Di quegli ultimi giri della Benetton ormai imprendibile resta il ricordo di una pista resa ormai una discarica di sacchetti di plastica e di ogni possibile rifiuto: il vento non aveva smesso per un giro di soffiare sulla gara. Sul podio il giovane Berger sorrideva a qualcosa che non avrebbe mai immaginato; a cui probabilmente non riusciva a credere. Non poteva sapere che a migliaia di chilometri di distanza, accorciati dal segnale video della TV in diretta, un certo Enzo Ferrari aveva seguito la sua gara curva dopo curva, sorpasso dopo sorpasso. E deciso, proprio quel giorno, di portare il giovane austriaco a Maranello, dove Gerhard arrivò pochi mesi più tardi.