Classe 1991, milanese, velista laureato in Ingegneria nautica. Ambrogio Beccaria è un navigatore oceanico atipico. Studioso di tutte le caratteristiche della barca e della vela, un rapporto viscerale con il mare e quella competitività che contraddistingue gli atleti più navigati. È il primo italiano ad aver vinto la Mini Transat, transatlantica in solitaria che dalla Francia termina nei Caraibi, riservata ai Mini 6,50 e la cui linea d'arrivo viene solitamente tagliata dagli stessi francesi.
Tutti tratti distintivi che lo accomunano inevitabilmente allo stile e ai valori di Pirelli, che infatti ha deciso di sponsorizzarlo per oltre due anni e accompagnarlo nelle regate in solitaria più iconiche. Tra queste, la Route du Rhum, quella che lo stesso velista definisce come «la regata oceanica in solitaria per eccellenza».
Quando è nata la passione per la vela in solitaria?
«Nessuno nella mia famiglia è appassionato di vela, quindi la passione è nata per caso, un pomeriggio d'estate in un campo estivo in Sardegna. Lì ho incontrato l'adrenalina grazie al maestrale che mi ha fatto scoprire cosa significa planare».
Qual è il ruolo della natura in questo sport?
«È un po' una compagna di viaggio. Non credo però che l'uomo possa dominare effettivamente quella natura estrema, quella selvaggia. Credo invece che questo sport crei un equilibrio, il navigatore deve infatti trovare un rapporto con la natura e quando ci riesce è perché si è fatto accettare da un ambiente così estremo. Questo succede ancor di più nella vela in solitaria. Ti spinge ad andare oltre i tuoi limiti ed è in quei momenti che mi sento davvero connesso con la natura: quando tutto è complicato e devi gestire le energie».
Come è nata invece la passione per la vela in solitaria?
«È nata quando ho deciso che volevo imparare di più. Volevo scoprire il più possibile del mare, dell'oceano, della vela. E farlo in solitaria è stato il modo per obbligarmi a indagare tutto».
Ci sono delle tappe fondamentali nella tua carriera da navigatore?
«La prima è stata al liceo, quando con degli amici abbiamo preso una barca e abbiamo deciso di confrontarci con velisti molto esperti. Abbiamo imparato molto. La seconda invece, altrettanto importante, è stata quando ho deciso di comprare un Mini 6,50, un relitto di barca abbandonato a Lisbona con cui ho iniziato a fare la vela oceanica in solitaria».
Hai studiato in ingegneria. Come si mescola alla vela?
«Unire studio ed esperienza è stato chiaramente di grande aiuto. Mi ha dato alcuni spunti per lavorare sulla sensibilità del navigatore in mezzo al mare. Sono sempre stato appassionato di fisica e trovo che la barca venga considerata da sempre come un qualcosa di fin troppo semplice, forse perché l'uomo naviga da sempre. Grazie ai miei studi al contrario ho un approccio più scientifico e sono convinto che la barca sia invece un sistema molto più complesso».
Cosa ti ha spinto a lanciarti in questo progetto?
«Ricerca e innovazione. Lo studio delle barche a vela negli ultimi vent'anni ha fatto sì che venisse raddoppiata la velocità media delle imbarcazioni. È uno sport in continua evoluzione ed è soprattutto per questo che ho deciso di lanciarmi nella costruzione di un nuovo progetto. C'è tanto da indagare e volevo, e voglio farlo, con il mio modo di navigare».
Cosa hai scoperto con questa disciplina?
«Dopo tutte queste miglia navigate una delle cose che ho scoperto, e che più mi piace fare, è lo studio della meteorologia. Mi sembra quasi magia. Si parla di previsioni, guardare l'orizzonte e riuscire a capire cosa succederà in quel momento o magari tra un giorno. È qualcosa che mi affascina moltissimo».
Com'è nato il rapporto con Pirelli?
«Tutto è nato da una telefonata con Maurizio Abet, un anno fa. Era un momento in cui mi trovavo in particolare difficoltà, ero convinto di avere un progetto estremamente valido, con un grande potenziale, ma non riuscivo a trovare qualcuno che volesse lanciarsi con me in questa avventura. Parlando con Maurizio ho avuto la fortuna di trovare qualcuno che sapesse di che cosa stavo parlando, sapesse e conoscesse la vela oceanica perché aveva già lavorato con Soldini. È stata una boccata d'ossigeno perché di solito dovevo sempre spiegare cosa facessi, spiegare cosa fosse la vela oceanica: una vera e propria corsa in salita».
Come si sta strutturando la partnership con Pirelli?
«Oggi, un anno dopo questa telefonata, lanciamo il progetto. C'è stato sicuramente bisogno di capire a fondo come potessimo organizzare questa lavoro insieme e ci siamo convinti che la Class 40 era il passo giusto perchè permetteva di creare un primo team di vela oceanica italiana come volevamo fare, di costruire una barca innovativa come volevamo fare mettendo così un primo piede in questo sport. Siamo convinti che il percorso insieme sarà lungo e che abbiamo grandi sogni davanti, l'importante è farlo serenamente non facendo, come dicono i francesi “non andare più veloci della musica».
E su di te cosa hai scoperto?
«Che da solo mi sento molto bene. È un qualcosa che mi ha dato una grande forza. Riuscire a stare bene con sé stessi è una ricchezza non solo durante la navigazione, ma anche nella vita di un qualsiasi essere umano».
Come ti prepari per una traversata?
«La mia giornata tipo è molto varia. Non bisogna lasciare indietro nulla. Personalmente mi piace molto lavorare allo studio della barca, trovarne il potenziale infatti non è scontato. Non basta spingere l'acceleratore al massimo, ci sono tantissimi piccoli dettagli che vanno regolati ed è un qualcosa che il più delle volte va fatto in team. Dopodiché non bisogna tralasciare il proprio corpo, sia da un punto di vista fisico che mentale, perché anche la motivazione fa parte della preparazione».
Come si dorme durante la navigazione in solitaria?
«A bordo abbiamo un pilota automatico in grado di timonare veramente bene. Sul dove dormire invece è dato dalle condizioni del vento. Se questo viene da sinistra tendenzialmente dormirò a sinistra. Diciamo che si cerca di adattare il proprio peso alle condizioni della barca, e comunque si dorme pochissimo».
Cosa ti affascina della Route du Rhum?
«È l'attraversata dell'Oceano Atlantico in solitaria per eccellenza ed è considerata una delle regate più importanti e più dure al mondo. Mi affascina tutto, a partire dal percorso. Si parte dal nord della Francia e con un solo salto si arriva dall'altra parte. Di solito si fa scalo alle Canarie, dove si affronta la cosiddetta rotta di Colombo, obbligati a passare negli Alisei profondi. Nella Route du Rhum le rotte invece si aprono a ventaglio, a nord ci sono mille rotte da indagare ed è una cosa che qualunque navigatore sogna di poter fare».
C'è qualcuno a cui ti sei ispirato?
«Ancora prima di conoscerlo, Giovanni Soldini. Con il suo libro Nel Blu mi ha fatto capire che fare una vita del genere è possibile».
Cosa diresti al te stesso di quattordici anni?
«Di accettare la paura. Avere paura va bene, mi ha permesso di intestardirmi su un qualcosa che tanti mi dicevano di non fare e invece ci sono riuscito. Forse al piccolo Ambrogio darei anche un pacca sulla spalla».
Che opera d'arte ti ricorda la vela?
«Il viandante sul mare di nebbia. Penso sia un dipinto che ben descrive l'attrazione che ha l'uomo verso il sublime. Non è per forza una cosa estremamente bella, ma è estremamente selvaggia, come nel mio caso».