Dagli anni Novanta fino a oggi, molti sociologi e urbanisti hanno profetizzato l'imminente fine delle città. La ragione era semplice: nell'epoca di Internet, la vita urbana avrebbe conservato tutti i suoi svantaggi (traffico, inquinamento e altro ancora), mentre sarebbero diventati sempre meno importanti i vantaggi che offre. In fondo, a cosa serve vivere vicino a cinema, librerie, negozi di dischi e centri commerciali quando si può comprare tutto su internet? La rete, inoltre, garantisce accesso immediato a un mare di comunicazione, informazione ed educazione, rendendo possibile a chiunque, in qualunque parte del mondo, agire e comunicare come se si trovasse nel centro del mondo globalizzato.
Le cose, invece, sono andate molto diversamente: a oltre vent'anni dalla diffusione di massa di Internet, più di metà della popolazione mondiale vive nei centri urbani e le previsioni per il futuro dicono che questa percentuale continuerà ad aumentare. Com'è possibile? “La spinta all'urbanizzazione che va in scena oggi è di una portata e di un'intensità senza precedenti”, spiega Carlo Ratti, architetto e docente presso il MIT di Boston, dove dirige il Senseable City Lab. “Internet non ha affatto ucciso la città, si è limitata a ridefinire i modi con i quali tutti noi viviamo lo spazio, ci conosciamo e stiamo insieme”.
La spinta all'urbanizzazione, paradossalmente, riguarda anche i creativi, i professionisti e le classi intellettuali che si pensava avrebbero in parte abbandonato la città per ripopolare la campagna: “Le dinamiche di socializzazione possibili nei grandi centri urbani sono essenziali per supportare la produttività e i processi creativi”, prosegue Ratti. Le stesse dinamiche che fanno sì che, ancora oggi, la maggior parte delle persone preferisca lavorare in ufficio: “Un paio di decenni fa si credeva anche che Internet, consentendoci di comunicare e lavorare a distanza, avrebbe reso il luogo fisso di lavoro un'idea del passato. È vero che oggi possiamo lavorare dappertutto – a casa, in un lounge d'aeroporto o al tavolino di uno Starbucks – e non siamo più vincolati a una postazione fissa. In ufficio però continua a succedere qualcosa di unico: possiamo interagire con i colleghi”.
Quello che sta avvenendo, quindi, è il contrario di quanto era stato previsto: Internet non sta provocando l'abbandono delle città; grazie all'Internet delle Cose (vale a dire tutti gli oggetti che si possono connettere alle rete: dai semafori, ai cassonetti, fino ai frigoriferi e le telecamere) la rete si sta semmai integrando nelle città, trasformandole in smart cities. Città intelligenti in cui, per esempio, l'utilizzo delle nuove tecnologie e l'analisi dei big data promette di renderle sempre più sicure, più pulite e più vivibili. Carlo Ratti, però, preferisce parlare di senseable cities: “Le città non diventano solo intelligenti, smart. Si tratta di mutazioni più profonde, quasi l'inizio di una nuova era: un'era in cui la tecnologia è così radicata nello spazio che abitiamo da poter finalmente finire sullo sfondo delle nostre vite; come elemento onnipresente ma discreto. Al centro di questo cambiamento si trova l'uomo”.
Da questo punto di vista, quindi, parlare senseable city ha un significato molto chiaro: “La nostra città diventa uno spazio capace di percepire, rispondere e adattarsi alle esigenze di ogni individuo. Una città in cui la tecnologia si mette al servizio del cittadino”. Un ruolo cruciale lo giocano i big data, che permettono di analizzare in tempo reale il traffico o la quantità di rifiuti prodotta, di segnalare disservizi o altri problemi attraverso le app, permettendo all'amministrazione di avere sempre sott'occhio una mappa dinamica dei problemi più pressanti, massimizzando l'efficacia degli interventi: “Questa mole di dati”, prosegue Carlo Ratti, “ci fornisce una maggiore conoscenza della città e ci permette sia di ispirare il nostro approccio alla progettazione, sia di informare in tempo reale i cittadini su quanto sta accadendo nell'ambiente urbano. Si tratta degli stessi dati che rendono possibile il funzionamento delle app che utilizziamo ogni giorno sui nostri telefonini. È importante per noi individuare nuovi modi con i quali utilizzare queste informazioni a nostro favore, rendendole aperte (i famosi open data) e a disposizione di tutti”.
Una marea di dati, che, se sfruttati virtuosamente, possono portare vantaggi significativi e, ancor più importante, innescare un cambiamento nelle abitudini delle persone: “È quanto accaduto qualche anno fa a Seattle, con il progetto TrashTrack del nostro Senseable Lab”, spiega Ratti. “Attraverso una serie di etichette elettroniche abbiamo iniziato a tracciare circa 3.000 campioni di oggetti buttati nelle pattumiere cittadine e ne abbiamo mappato le traiettorie. I rifiuti spesso attraversavano tutti gli Stati Uniti, arrivando anche fino alla Florida e quindi provocando un enorme inquinamento. Bene: una volta mostrate queste assurde traiettorie ad alcuni volontari, abbiamo osservato come diverse persone abbiano deciso di adottare scelte di consumo diverse e più sostenibili: per esempio eliminare l'acquisto di bottiglie di plastica”.