Esiste un asse fatto di passione, di professionalità, di valori cosiddetti buoni, all'interno di un universo, o per meglio dire di un mercato (quello calcistico), che alcune volte dimentica il bello di ciò che accade in e fuori dal campo, il bello dello sport giocato, il bello dello stare in squadra. Si tratta del calcio femminile.
Tutto questo discorso può sembrare retorico, ma restituisce la sensazione esatta che si prova dopo aver parlato con Rita Guarino, torinese, 53 anni compiuti il 31 gennaio 2024, allenatrice dell'Inter femminile dall'estate 2021. Quello di Guarino è uno dei volti più importanti del calcio femminile italiano, per il tempo che ha passato in campo e in panchina, per le qualità che ha manifestato e che continua a manifestare. Ha iniziato a giocare a 14 anni, a venti ha esordito in Nazionale in occasione del primo Mondiale femminile della storia, ha vinto cinque scudetti, ha avuto un'esperienza negli Stati Uniti, oggi è una delle allenatrici più vincenti del nostro Paese. Da calciatrice era un'attaccante di qualità, in panchina ha iniziato prestissimo – mentre ancora giocava – e poi ha vissuto dall'interno l'arrivo degli investimenti portati dai club maschili, l'istituzione del professionismo, la crescita del numero dei tifosi. Nel frattempo, ha conquistato altri quattro scudetti, una Coppa Italia e due Supercoppe.
Eppure Guarino dice che il suo percorso non è finito, che ha ancora tanto lavoro da fare per lei, per le calciatrici di oggi e per quelle di domani, per la crescita e l'affermazione del movimento femminile. Al di là della retorica.
In virtù di tutto quello che ha fatto nel calcio femminile, Rita Guarino si ritiene un simbolo del movimento?
“Mi sento parte del percorso compiuto dal calcio femminile, fin da quando non era sotto i riflettori e viveva all'ombra di quello maschile. Ho vissuto anche momenti di stallo, momenti privi di grandi investimenti. Ora c'è un po' di crescita, ma in realtà secondo me il percorso è appena iniziato”.
Quando sono iniziati i veri cambiamenti?
“Direi a partire dal 2015, quando si è determinato il coinvolgimento dei club maschili. All'inizio hanno dovuto adempiere a degli obblighi, ovvero creare delle squadre Under 12 femminili, poi pian piano la cosa si è evoluta: le società hanno potuto acquisire il titolo sportivo di una squadra dilettantistica femminile. Da quei giorni, il calcio femminile è diventato parte integrante del sistema professionistico. Con annessi strumenti e competenze. Con mezzi e ambizioni completamente diversi”.
C'è qualcosa che non è cambiato, magari in positivo?
“Quello che non è cambiato, e che mi auguro non cambierà mai, sono i valori che il calcio femminile si porta dietro. Si parte sicuramente da un'enorme passione da parte delle giocatrici, ma poi si arriva alla lealtà sportiva, all'etica comportamentale, a tutta una serie di manifestazioni legate a una reale vicinanza con il pubblico. Anche i tifosi stessi, devo dire, non sono ancora cambiati: chi segue il calcio femminile sostiene la propria squadra più che insultare quella avversaria, il pubblico fa un tifo sano”.
Com'erano le giornate da calciatrice di Rita Guarino?
“Piene. Perché oltre agli allenamenti, alle trasferte, al tempo dedicato alla Nazionale, c'era anche lo studio. Noi giocatrici ci preparavamo al nostro futuro, volevamo costruire il nostro domani al di là del calcio. Molte calciatrici degli anni Ottanta e Novanta dovevano riuscire a conciliare il lavoro vero e proprio all'attività sportiva. Chi come me era nel giro della Nazionale non poteva farlo, di fatto eravamo già professioniste anche senza esserlo formalmente. Ma anche noi pensavamo a quello che sarebbe successo alla fine della nostra carriera: non avremmo vissuto di rendita ed era necessario costruirsi un futuro in altri ambiti. Oggi è diverso, ok, ma non più di tanto: le ragazze sono professioniste, ma continuano a portare avanti una sorta di carriera parallela, all'università o nel mondo del lavoro. Si preparano a ciò che succederà dopo”.
L'idea di diventare allenatrice è venuta mentre giocavi?
“Il mio primo patentino da allenatrice l'ho preso a 25 anni. Un anno dopo ero già vice-allenatrice della rappresentativa piemontese, un anno dopo ero alla guida della seconda squadra nel club in cui giocavo. Per me è stata una cosa abbastanza naturale, mi è sempre piaciuto trasferire le mie conoscenze alle ragazze più giovani”.
Che caratteristiche aveva Rita Guarino da calciatrice?
“Ero un'attaccante veloce, tecnica, altruista. Mi mancava qualcosa nel colpo di testa”.
E che allenatrice è diventata?
“Come allenatrice mi piace definirmi flessibile: non sono ancorata a dei modelli o dei sistemi personali, cerco di adattarmi alle qualità delle giocatrici che ho a disposizione”.
Qual è il tuo life hack in preparazione di una partita?
“Ho una grande cultura del lavoro, quindi cerco di curare ogni minimo dettaglio, di dedicare tanto tempo alla mia squadra: il calcio mi occupa la mente 24 ore su 24, anche quando non sono in campo la testa è rivolta alle mie giocatrici. Voglio metterle nelle migliori condizioni per la gara che dobbiamo affrontare, voglio analizzare le avversarie, voglio prepararle a più partite nella stessa partita, in modo da poter gestire qualsiasi contingenza”.
Dopo averne vinti cinque da calciatrice, hai conquistato quattro scudetti in panchina. Cosa si prova a vincere da allenatrice?
“Da giocatrice sei uno strumento musicale che suona bene quando il gruppo ti permette di farlo. Da allenatrice devi valorizzare il suono di tanti strumenti, di tutti gli strumenti, in modo che possa venire fuori una bella sinfonia. Quando alleni, mi viene da dire, è tutto estremamente amplificato”.
La Nazionale: qual è il ricordo che ti è rimasto più impresso?
“Sicuramente il mio esordio con la maglia azzurra: era ai Mondiali, e ho anche fatto gol. Ancora oggi, quando ne parlo, vengo travolta dal ricordo, dall'emozione provata quel giorno. Da allora ho avuto la spinta a pensare che il calcio potesse diventare la mia vera professione. Fino a quel momento non avevo ancora realizzato cosa stessi facendo, dove potessi arrivare. Il fatto che si potesse vivere un'emozione così forte ha fatto sì che io continuassi a cercarla, in campo e poi anche da allenatrice”.
Cosa rappresenta la Nazionale per il calcio femminile?
“Parliamo di un movimento che ha bisogno di essere riconosciuto, di crearsi un pubblico più vasto, quindi la Nazionale può essere un volano comunicativo. Lo abbiamo visto coi Mondiali 2019, che hanno letteralmente creato una nuova base di appassionati”.
Cosa possono fare le istituzioni e i club per aiutare il calcio femminile a crescere ancora?
“Noi viviamo in un Paese in cui la cultura sportiva non è ancora supportata in modo efficace. Basti pensare che il 40% delle nostre scuole è privo di una palestra. Il calcio femminile ha visto investimenti importanti, ma adesso bisogna dare continuità: all'estero non stanno fermi ad aspettarci, hanno iniziato prima e continuano a svilupparsi. C'è bisogno di tenere il passo, di continuare sulla strada intrapresa negli ultimi anni: bisogna investire ma anche creare competenze, valori, dare visibilità a uno sport che merita di essere seguito”.
E dal punto di vista dei pregiudizi e degli stereotipi stiamo davvero riuscendo a sconfiggerli?
“I pregiudizi, gli stigmi, gli stereotipi continueranno a esserci. Almeno finché non si finirà di paragonare il calcio femminile a quello maschile. Se vogliamo fare dei passi in avanti, dobbiamo riconoscere il calcio femminile per quello che è, non per quello che forse potrebbe essere. D'altra parte va anche detto che le cose stanno iniziando a cambiare: è arrivato il professionismo, sono arrivate delle tutele importanti, le nuove generazioni possono sentirsi attratte da questo mondo. Sarebbe fantastico, ma dobbiamo continuare a lavorare, a crederci tanto”.