Intervista ad Alessandro Trovati, fotografo di ciclismo
Alessandro Trovati ha fotografato undici edizioni dei Giochi Olimpici e tutte le Coppe del Mondo di sci disputate nell'ultimo quarto di secolo, ma sostiene che il ciclismo sia unico: “È senza dubbio lo sport più fotogenico di tutti: ogni metro di gara è una cartolina”.
La fotografia per lui, è una questione di famiglia: “Mio padre è stato direttore di Associated Press per molti anni, era inevitabile che mi ci avvicinassi anch'io”. Anche il ciclismo è una questione di famiglia: “L'azienda di mio nonno, che ha introdotto il nastro adesivo in Italia, ha sponsorizzato la maglia verde del Giro d'Italia negli anni '70. Inoltre Vincenzo Torriani, storico patron del Giro, è stato testimone di nozze dei miei. Insomma, non avevo scampo neanche in questo caso”. Unire macchina fotografica e bicicletta nel lavoro e nella passione di una vita è stato il passo successivo, naturalissimo.
Bentornato dal Giro d'Italia, Alessandro.
Grazie. Giro d'Italia numero 18, sono tanti. Il primo l'ho seguito nel 1994, ne ho saltato giusto qualcuno, ma in genere è un evento che non mi perdo per nessun motivo al mondo.
Cos'ha il Giro che altre corse non hanno?
Il Giro d'Italia è infinite possibilità. È la varietà di un paesaggio che cambia più volte all'interno della stessa tappa. Io ho coperto anche 4 Tour de France in carriera, e pure il Tour è un'esperienza magnifica. Ma in Francia certi giorni hai l'impressione che lo sfondo non cambi mai, con questa campagna sconfinata e questi campi di girasoli infiniti. In Italia si modifica sempre tutto.
Però il Tour de France ti ha dato la possibilità di scattare una delle foto più importanti della tua carriera.
Vero. Erano gli anni del dominio di Lance Armstrong, il 2005 per la precisione. Armstrong era noto per non rimanere mai da solo in corsa, era circondato e protetto dai suoi compagni di squadra in ogni occasione. Quel giorno, eravamo appena usciti da una città, Armstrong si fermò a fare pipì, completamente solo. La sosta fisiologica è uno dei momenti in cui c'è una legge non scritta che vieta di scattare foto, allora io aspettai che lui si rimettesse in bici per rientrare in gruppo. Lo fotografai in mezzo ai campi di grano, sui pedali, da solo. La foto fu poi usata da Sports Illustrated come copertina. Fui bravo e fortunato.
E la tua foto più famosa scattata al Giro, invece?
Certamente Pantani e la spugna, Alpe di Pampeago 1999. Credo sia anche la mia foto preferita in assoluto, e me la ricordo come fosse ieri. Pantani di solito non prendeva mai niente dal pubblico, ma quel giorno faceva molto caldo e accettò questa spugna imbevuta da uno spettatore. Se la passò sulla testa proprio mentre io ero lì, con gli occhi chiusi e la bocca aperta. Quella foto, la prima in digitale, diventò subito una specie di icona e, anche se con Pantani non ho mai avuto modo di parlare, so che piacque anche a lui, e la sua Fondazione l'ha usata in diverse occasioni.
È mai capitato che un corridore ti parlasse di una foto scattata da te?
Sì, succede soprattutto quando smettono di correre, allora capita di incontrarli a mostre ed eventi. È capitato che ex-campioni come Paolo Bettini e Ivan Basso mi abbiano detto qualcosa tipo “ah, ma l'avevi fatta tu quella foto? Che bella!”. Ma la richiesta più singolare non mi è venuta da un corridore.
E da chi?
Da un prete. Giro d'Italia 2013, cronosquadre di Ischia. Giro l'angolo e vedo questo sacerdote a bordo strada, una specie di don Camillo, con una bandiera dell'Italia in una mano e la sua bicicletta nell'altra. Scatto questo mosso con lui al centro, urlante, e i corridori che passano. Sportweek pubblica la foto, il prete la vede e in un qualche modo riesce a ottenere il mio contatto. Un giorno mi telefona questo don Salvatore di Ischia: mi ringrazia, mi dice che è la foto più bella che gli abbiano mai fatto e mi chiede di mandargli la foto.
Evidentemente c'è ancora qualcosa che solo una bella fotografia riesce a restituire.
L'occhio del fotografo è insieme più vicino e più largo, ha la possibilità di dare importanza ai particolari degli spettatori che guardano il passaggio della corsa. E poi la foto è emozione, congela l'attimo e dura per sempre. Il resto passa veloce.
Anche le bici passano veloci. Quanto è difficile fare la foto perfetta durante una gara di ciclismo?
La difficoltà principale è che tu sei sulla moto e anticipi i corridori, o li rincorri. Se quando ti fermi indugi troppo e scatti una foto che per qualche motivo non va bene, non hai una seconda possibilità, hai perso l'attimo. Per questo è fondamentale studiarsi il Garibaldi il giorno prima, scegliere il punto preciso dove fermarsi, oppure avere la fortuna, come ce l'ho io, di conoscere bene le strade di montagna.
Ma l'imprevedibilità della corsa è sempre dietro l'angolo.
Sempre. Prendi il Giro appena finito. Durante la tappa dello Stelvio io ero rimasto accanto a Tom Dumoulin, la maglia rosa, fino a un minuto prima che lui si fermasse per il suo problema intestinale. Ma quando è successo, non c'era nessuno accanto a lui, non esistono foto di quella fase di gara, e forse in fondo è meglio così.
Meglio fotografare il paesaggio o i corridori?
La giusta combinazione delle due cose: i corridori dentro il paesaggio. Da questo punto di vista, le Dolomiti sono il posto migliore di tutti.
Stare dentro la corsa aumenta o riduce il sentimento epico con cui si guarda al ciclismo?
Beh, io non riuscirei più ad attendere il passaggio della corsa per ore, come fanno migliaia di tifosi lungo le strade. Questa capacità l'ho persa. Ma stare dentro la corsa è tutto un altro mondo, è irrinunciabile.
Infine, ti diverti ancora a fotografare il ciclismo?
Da morire. Partirei domattina per un nuovo Giro d'Italia.
Una selezione di foto in bianco e nero di Alessandro Trovati sarà esposta fino al 18 giugno presso la Casa Museo Spazio Tadini a Milano. La mostra si chiama “Lo sport in bianco e nero” ed è curata da Federicapaola Capecchi.