Sono passati poco più di trent'anni da quell'1° maggio 1994, il giorno in cui Ayrton Senna perse la vita a causa dell'impatto contro il guardrail alla curva del Tamburello nel settimo giro del Gran Premio di San Marino, corso sul circuito di Imola. Il suo ricordo è ancora vivissimo, nella mente dei tifosi di Formula 1 ma non solo, perché il mito di Ayrton ha trasceso in confini dello sport, non solamente in Brasile ma anche altrove, anche e soprattutto in Italia.
Forse nessun pilota che non abbia mai guidato per la Ferrari è entrato così profondamente nel cuore degli appassionati italiani che hanno sempre sostenuto e ricordato con grande calore Ayrton, che aveva peraltro lontane origini italiane e che in questo Paese ha trovato la sua tragica fine.
C'è un altro pezzettino di Italia nella storia di Ayrton in Formula 1, legato al suo esordio nella massima competizione automobilistica. La Toleman con cui il brasiliano debuttò in Brasile nel 1984 montava pneumatici Pirelli e così fu per altre due gare prima che la squadra inglese passasse alle Michelin. Suo ingegnere all'epoca era Pat Symonds, uno dei personaggi storici del mondo delle corse negli ultimi quarant'anni, oggi Direttore Tecnico della Formula One Management. A Pat abbiamo chiesto di raccontarci proprio quei primissimi passi di Ayrton in Formula 1.
“Senna aveva già fatto due test con delle monoposto, prima con la Williams e poi con la McLaren, ma ancora non sapeva se avrebbe corso in Formula 1 l'anno successivo. Lo avevo notato nei suoi primi passi in Formula Ford e poi in Formula 3 quindi il nostro team principal Alex Hawkridge organizzò un giorno di prove a Silverstone, in ottobre. Quel giorno fu Rory (Byrne, n.d.r.) a seguirlo direttamente ma anch'io ero lì, curioso di vedere come si sarebbe comportato ad avere a che fare per la prima volta con un motore turbo, visto che non aveva mai avuto esperienze prima con quel tipo di propulsore, il cui comportamento in termini di guidabilità era ben diverso rispetto ai turbo di oggi: il nostro Hart aveva un'erogazione della potenza a dir poco brusca…. Già al mattino, con la pista umida, fece un ottimo tempo, inferiore a quello del pilota titolare di allora, Derek Warwick ma al pomeriggio, quando la pista si asciugò, fu davvero impressionante.”
Non fu però la velocità ad impressionarti maggiormente ma qualcosa del suo carattere.
“La fiducia in sé stesso, nel destino che lo stava aspettando. È vero, i piloti e gli sportivi più in generale devono credere nelle proprie capacità, altrimenti non arriveranno mai al successo. Ho avuto la fortuna nella mia carriera di lavorare con dei piloti incredibili come Michael Schumacher e Fernando Alonso ma non ho mai incontrato nessuno che, il giorno del primo test con una macchina e una squadra che non conosceva in alcun modo avesse una tale consapevolezza di cosa dovesse fare e dove volesse arrivare. Non c'era alcuna timidezza in quel ragazzo, voleva semplicemente che gli fosse data la possibilità di guidare una monoposto di Formula 1. Era un atteggiamento che non lasciava spazio a dubbi o incertezze che poi si concretizzava in un'incredibile capacità di spiegare con precisione ogni comportamento della monoposto. Fummo tutti colpiti da questo aspetto: bisogna ricordare che all'epoca non esisteva la telemetria e noi ingegneri dovevamo affidarci totalmente a quello che ci diceva il pilota, anche per esempio per monitorare le temperature del motore. E nessuno dei piloti con cui avevamo lavorato finora era mai stato capace di darci dei feedback precisi come i suoi. Era preparatissimo, non tanto sotto il profilo strettamente tecnico quanto nella capacità appunto di descrivere che cosa faceva la macchina in pista e che cosa gli serviva per andare più veloce”.
E così decideste di assumerlo per il 1984?
“Questa era la nostra intenzione ma Ayrton a novembre fece un altro test, con la Brabham. Nella squadra di Bernie Ecclestone allora il numero uno era Nelson Piquet, che aveva appena vinto il suo secondo titolo mondiale, che chiaramente non vedeva di buon grado che arrivasse un giovane brasiliano accanto a lui: quindi, almeno questa è la voce che poi girò nel paddock, Nelson fece in modo che nel test al Paul Ricard Ayrton avesse un assetto non al top, per evitare ogni rischio. Così poi Senna tornò da noi e si mise d'accordo per correre con la Toleman per un anno, con un'opzione a nostro favore, un fattore che, più tardi avrebbe creato più di un contrasto”.
Ti sei chiesto come mai Williams e McLaren non avessero puntato su quel talento nonostante avessero avuto la possibilità di metterlo alla prova?
“Allora, molto più di oggi, le grandi squadre non amavano rischiare puntando sui rookie. Al tempo poi non è che ci fossero tutti i programmi dedicati ai giovani come ci sono attualmente: qundi puntare su un debuttante era forse troppo rischioso. Ayrton aveva vinto la Formula 3 britannica, è vero, ma non è che l'avesse dominata, anzi aveva lottato fino all'ultimo per superare Martin Brundle. Quindi, in un certo senso, fu compensibile che Frank Williams e Ron Dennis non volessero prendere dei rischi. Per noi, che eravamo un team piccolo, era più facile puntare su di lui e poi ci aveva davvero colpito come si fosse immediatamente trovato a suo agio su una macchina così scorbutica come la nostra: sembrava fatto per correre in Formula 1”.
La firma del contratto aveva cambiato qualcosa nel suo approccio?
“No, non direi. Per lui sembrava essere tutto assolutamente naturale e faceva trasparire quest'incredibile consapevolezza di cosa stesse facendo. Sapeva esattamente che la Toleman sarebbe stata solamente un primo passo, che non era con noi che sarebbe cresciuto e che avrebbe conquistato i suoi obiettivi. Non era arroganza, era appunto fiducia smisurata in sé stesso. Si ripresentò in Inghilterra dopo la pausa invernale ed era pronto per fare quello che voleva più di ogni cosa al mondo: guidare in Formula 1”.
Come andò il debutto?
“La monoposto, la TG183 B, era sostanzialmente un'evoluzione della vettura precedente, che aveva disputato la stagione 1982. Nel 1983 avevamo chiuso al nono posto e, soprattutto, nel finale, andavamo a punti con una certa regolarità. Era una vettura veloce ma piuttosto difficile da mettere a punto. Il tallone d'Achille rimaneva però l'affidabilità, come si vide al debutto a Rio de Janeiro. Ayrton e il suo compagno di squadra, il venezuelano Johnny Cecotto, due volte campione del mondo in moto, riuscirono sì a qualificarsi ma nessuno dei due arrivò fare nemmeno un terzo di gara: all'ottavo giro andò in fumo il turbo di Ayrton, al diciottesimo quello di Johnny”
Le due corse successive andarono meglio.
“A Kyalami si correva in altura, a oltre 1500 metri di altitudine, e lo sforzo richiesto per correre in quelle condizioni era notevole. Se il primo Ayrton aveva un punto debole questa era la preparazione fisica. Partì tredicesimo e riuscì ad arrivare fino alla bandiera a scacchi, anche se staccato di tre giri dal vincitore Piquet, addirittura in sesta posizione: fu il primo punto iridato della sua carriera. Alla fine, era esausto: dovemmo tirarlo fuori a braccia dall'abitacolo perché lui non riusciva ad uscirne da solo: nei fatti, quella era stata la sua prima gara completa in Formula 1, perché all'epoca nei test non si facevano certamente le simulazioni di oggi! Quel Gran Premio fu un campanello d'allarme per Ayrton perché si rese conto che non era pronto fisicamente e allora iniziò a lavorare anche su quel fronte. A Zolder arrivò un altro sesto posto, un ottimo risultato”.
Ma poi arrivò Imola e lì esplosero i problemi con Pirelli...
“Già, ci furono dei contrasti fra il team e la Pirelli, che ci supportava anche economicamente, che portarono a saltare la prima sessione di qualifiche. Nella seconda Ayrton ebbe un problema di affidabilità che gli impedì di fare un tempo significativo e non riuscì così a conquistare un posto sulla griglia di partenza, per la prima e unica vola nella sua carriera. Una specie di segno del destino, a pensarci a posteriori”.
Lì si chiuse il rapporto di Senna con la Pirelli.
“Sì, perché dal Gran Premio di Francia iniziammo ad usare le Michelin, anche su gentile consiglio di Ecclestone. L'anno dopo però dovemmo fare marcia indietro, perché la Michelin si era ritirata dalla Formula 1, ma Ayrton già aveva lasciato la squadra per passare alla Lotus. Del resto, poche settimane dopo, a Monte Carlo, tutto il mondo della Formula 1 si era reso conto di che pasta fosse fatto il brasiliano. Prima ne parlavano ma non avevano davvero avuto una dimostrazione effettiva del suo talento”.
Quel Gran Premio di Monaco in cui solo una bandiera rossa forse troppo precipitosa gli aveva tolto la gioia del primo successo.
“Fu una domenica incredibile. Sul bagnato Ayrton letteralmente volava poi arrivò l'interruzione, chiamata da Prost, e così il sogno della vittoria sfumò ma eravamo comunque tutti felici quel giorno. La mattina dopo, però, iniziammo a pensare che più che un podio conquistato si trattava di una vittoria persa. Detto questo, successivamente scoprimmo che sulla vettura del brasiliano c'era una rottura in un rocker di una delle sospensioni: non so quanto avrebbe potuto resistere, magari un giro, magari tutta la gara, magari sarebbe bastato toccare un cordolo per farla spezzare definitivamente”.
Hai potuto conoscere da vicino tre straordinari piloti come Ayrton, Michael Schumacher e Fernando Alonso. Com'è stato lavorare con loro?
“Ayrton era un solitario, un battitore libero, assolutamente convito della sua missione e capace di costruirsi il suo gruppo di fedelissimi, di legarli a sé con un rapporto strettissimo: me lo ha confermato più volte anche Jo Ramirez, con cui mi capita di parlare spesso del brasiliano. Credo che sia dipeso anche dal fatto che in McLaren avevano un approccio storicamente molto chiaro nella gestione dei piloti, lasciandoli lottare fra loro. Michael è una delle persone più squisite che si possano incontrare, assolutamente normale e, soprattutto, un uomo squadra, anche perché è cresciuto sportivamente sin dall'inizio della sua carriera in un ambiente progettato in quest'ottica. Fernando in questo apetto è più simile ad Ayrton, anche se con gli anni, soprattutto nella sua esperienza nelle gare endurance, penso abbia capito di più quanto sia importante il lavoro di squadra mentre agli inizi era, diciamo così, più individualista. In ogni caso, è stata per me una grande fortuna poterli conoscere da vicino, sportivamente, soprattutto, umanamente”.