Andrew O'Hagan: la vita segreta dietro lo storytelling del web
Andrew O'Hagan con La vita segreta (Adelphi) scrive tre exempla sul tema dell'identità nell'era digitale. Un libro di poca o nessuna teoria esplicita – per fortuna, verrebbe da dire, visto che i pamphlet sul digitale diventano vecchi prima ancora di arrivare in libreria – composto da tre storie propriamente dette e ben raccontate, tre incarnazioni personali di un dilemma, quello dell'io nell'epoca della molteplicità e della distanza che il digitale impone tra uomo e mondo. In due di queste storie O'Hagan si ritrova alle prese con delle superstar, una reale (Julian Assange), una presunta (il Craig Wright autoproclamatosi Satoshi Nakamoto). Chiude il trio il racconto delle gesta compiute da un'identità totalmente inventata: l'avatar di Ronald Pinn, un bambino morto che sarà in grado di avere amici sui social network e comprare biglietti aerei, armi e droga sul deep web.
Perché hai scelto di raccontare storie così radicate nel mondo digitale?
Come romanziere sono sempre stato interessato ai personaggi, ogni personaggio ha un segreto e un romanzo è un modo di rivelare questi segreti. Al tempo stesso come scrittore di non fiction sono sempre stato attratto dal fatto che molte figure chiave del mondo digitale sentono il bisogno di scomparire e non avere un'identità, di non essere insomma dei “personaggi”. Ho cercato quindi di utilizzare le tecniche del romanzo per indagare le motivazioni profonde e nascoste di alcuni di loro. Cosa c'è nella personalità di Julian Assange che lui preferisce tenere nascosto? Cosa c'è di così difficile da affrontare nel fatto di essere l'inventore del Bitcoin? In fondo sono tutte storie profondamente umane.
Raccontare storie di questo tipo è molto difficile. Ad esempio nel farlo per il cinema si rischia di mostrare troppi schermi di computer e poche interazioni umane. Quali sono le difficoltà a cui va incontro la letteratura quando si confronta con questi temi?
Il problema è che molte persone si aspettano da internet proprio che sia un posto dove sia facile nascondersi. Un luogo dove indossare infinite maschere. Facebook mi ha detto che ci sono oltre 60milioni di account immaginari. Ci sono quindi almeno 60 milioni di persone che vivono una vita segreta su internet. Per questo“ Vita segreta” è un'espressione fondamentale, tanto che queste due parole sono diventate il titolo del libro. Volevo mostrare come sia possibile fare un viaggio alla scoperta di queste identità segrete, molte delle quali in fondo non sono poi così misteriose.
Quali erano le tue aspettative quando hai accettato di diventare il Ghostwriter di Julian Assange?
Ho sempre pensato che in un certo senso tutti i romanzieri siano dei Ghostwriter. Prendiamo in prestito la voce di altre persone e scriviamo come se fossimo loro. È uno dei nostri compiti, e molti scrittori di non fiction hanno la medesima sensazione: si tratta di entrare sotto la pelle delle persone. In questo libro si è trattato di fare la stessa cosa, con la sola differenza che queste persone non erano esattamente in carne ed ossa, almeno nella loro percezione, erano cyber, erano fenomeni di carattere digitale, erano persi nel cuore della tecnologia. Volevo confrontarmi con tutto questo e riuscire comunque a raccontare la storia di un essere umano. Julian Assange aveva letto i miei libri e voleva qualcuno che potesse raccontare la sua “verità”. Ma l'ironia è stata che quando ho incominciato a fare il mio lavoro non è riuscito a sopportare la verità, era troppo per lui. La sua soluzione quindi è stata provare a uccidere il libro che proprio lui aveva voluto.
Hai creato da zero un'identità digitale, cosa hai scoperto nel farlo?
Una delle frontiere offerte dalle nuove tecnologie è la possibilità di inventare una nuova identità completamente da zero. Prendendo in prestito le tecniche del cinema e della fiction e usando il certificato di nascita di una persona morta, puoi davvero creare una nuova personalità. Ho voluto provare di persona quanto tutto questo fosse fattibile. Così quasi come se fossi un giornalista investigativo sono partito da un certificato di nascita di un bambino di cui avevo trovato il nome su una lapide in un cimitero di Londra e ho provato a vedere quanto avanti si poteva portare questo inganno. Mi chiedevo se le persone su internet avrebbero trattato questa finta identità come una persona vivente, autentica. Lo hanno fatto. Il finto Ronald Pinn che ho inventato alla fine dell'esperimento aveva molte più menzioni su internet rispetto a quello vero, e questo la dice lunga sui tempi in cui viviamo.
Sei riuscito a fargli compiere anche alcuni reati.
Sì, volevo mostrare come questa “nuova persona” potesse giocare un ruolo nella dark net, un luogo dove puoi comprare armi, droga, soldi falsi. Lui ha fatto tutto questo, o meglio l'ho fatto io a suo nome, ho pensato di dovermi spingere il più vicino possibile al pericolo per mostrare quanto estreme siano oggi le possibilità per un'identità inventata. Il giornalismo investigativo non si può fermare subito prima della verità, deve arrivare fino in fondo. Questo era il mio compito. Ed è andato tutto molto più in là di quanto mi sarei aspettato, se devo essere sincero.
Dopo tutte le ricerche che hai fatto per scrivere questo libro senti di essere cambiato?
All'inizio pensavo che tutte queste storie non mi riguardassero personalmente, ma gradualmente ho realizzato che mi stavo prendendo in giro da solo. Il risultato è stato in fondo un libro che è anche un'autobiografia involontaria, un modo per raccontare il mio rapporto con la tecnologia che cambia e il mio faticoso senso identitario in un momento storico in cui l'identità non è più il concetto solido e univoco che era negli anni in cui sono cresciuto. In fondo ho scritto della mia personale crisi d'identità. Capita spesso con gli scrittori: finisci sempre per scegliere un tema che sai essere vicino a qualcosa d'importante per te, anche se magari all'inizio non te ne rendi conto.