Il potere nascosto di Carl Lewis
Icona. Tre sillabe, cinque lettere. Eppure la concisione si addice a un tale termine, che trasmette più significati, emozioni e status di forse il 99% di tutte le altre parole nel nostro vocabolario. Solo cinque lettere che evocano forza e potenza, creano ispirazione e ricordano trionfi umani di dimensioni quasi impossibili da eguagliare.
Coloro ai quali viene conferito il nome di icona rappresentano sicurezza in se stessi, traguardi e irraggiungibilità. Da Elvis Presley a Mozart, da Madre Teresa a Mahatma Gandhi, da Andy Warhol a Donatella Versace, quando definiamo “icona” una persona parliamo di visionari, grandi personalità, grandi leader, e li poniamo su un piedistallo eterno.
Tuttavia, una delle caratteristiche più autentiche di un'icona è la facilità con la quale sa muoversi tra poli opposti; sposare la modestia alla celebrità, asserire controllo in momenti di eccesso.
Un modello di vita
Il velocista e saltatore americano Carl Lewis è stato tra i primi della sua generazione a non concentrarsi solo sull'esplosione di energia del momento chiave che l'ha reso un campione, ma anche sulla durata e sulla fine di una gara, di una stagione, di una carriera. Si è costruito un modello di vita, circa allo stesso modo in cui ha assemblato i vari componenti fisici e meccanici dello sprint perfetto. Infatti a 58 anni vive ancora secondo questo principio.
“Seguo molti atleti al momento e noto che per loro è molto importante il grande gesto durante una gara,” spiega. “Per qualcuno è la partenza, per altri la spinta a metà percorso, il cambio di movimento, qualcuno semplicemente punta tutto su una sola gara, dormendo sugli allori per il resto della stagione.
“Quando correvo, non avrei mai potuto organizzarmi in quel modo. Non mi interessava concentrarmi su un solo millisecondo, su un momento: volevo controllare l'intero processo, perché mi interessava il risultato generale.”
Le prove? Già da adolescente, Lewis si poneva traguardi ben oltre la norma. In primo luogo, a diciassette anni, nonostante fosse uno dei personaggi più brillanti e promettenti dello sport americano, stava già progettando il suo futuro ritiro dalle scene. Parliamo di un atleta i cui successi nascevano da un modo di pensare non convenzionale, pieno di motivazione, oltre che da un fisico asciutto e ingannevole per i suoi 188 centimetri di altezza. “Nel 1979 ho deciso che volevo raggiungere gli 8,79 metri nel salto in lungo, vincere l'oro alle Olimpiadi, essere un brand globale, essere milionario. Una volta stabiliti questi miei traguardi finali, ho iniziato a ottenerli accumulando mini-traguardi, ma quelli finali non sono mai cambiati.
“Certo, sapevo di dover sfruttare i talenti che fortunatamente possedevo, ma vedevo me stesso come più di un semplice atleta: volevo sviluppare il “marchio Carl Lewis”.
La costruzione di un brand
Per l'atleta nato in Alabama e laureato a Houston, il controllo sulla sua vita si esprimeva nell'applicare metodi molto semplici e pratici per arrivare ai suoi traguardi. “Non potevo limitarmi a investire tutto il mio tempo in pista: ho preso lezioni di elocuzione, ho letto tanto, ho iniziato a presenziare ai Grammy, agli Emmy, agli American Music Awards, perché volevo studiare come gli artisti presentano se stessi; volevo parlare con loro dell'immagine,” racconta. “Adesso sembra una follia, ma parliamo di 35 anni fa; non c'erano i social, non avevamo manager, non avevamo niente di queste cose moderne.
“Stavo usando la mia carriera per costruire un marchio che avrei fatto fruttare per tutta la vita, questo mi era molto chiaro; sapevo che gli altri avrebbero potuto superare i miei risultati e allo stesso tempo distruggere gli obiettivi raggiunti per arrivare alla vetta, e non volevo affatto che succedesse; dovevo controllare questo aspetto meglio di qualunque altro atleta.”
Per tornare al concetto di icona, possiamo includere Lewis in questa categoria grazie al suo modo unico di aspirare alla fama, alla sua percezione inusuale del successo? Impegnarsi non solo sul risultato finale, ma su come raggiungerlo, denota una persona davvero speciale?
Indubbiamente, i grandi dello sport sono persone rare, perché il loro momento “in cima alla vetta” è così breve che la caduta può rivelarsi catastrofica. Lewis, invece, ha realizzato ciò che prometteva. Secondo a pari merito tra i pluripremiati con l'oro olimpico (nove medaglie), autore di 14 dei 20 salti più lunghi della storia; il primo a qualificarsi per cinque gare olimpiche di salto in lungo e uno dei soli tre campioni a tornare a vincere lo stesso evento individuale in quattro Olimpiadi consecutive.
Dopo il ritiro dalle gare, è stato nominato atleta mondiale del secolo dalla IAAF, sportivo del secolo dalla IOC e atleta olimpico del secolo dalla rivista Sports Illustrated. Ma per Lewis pianificare il futuro era tanto importante quanto qualunque riconoscimento, e così nel 1997, anno del ritiro, aveva già progettato la sua prossima mossa.
Tutor, allenatore, fonte di ispirazione
Il suo lavoro quotidiano è ancora di enorme interesse per i marchi. La campagna Pirelli del 1996 è considerata un momento di pubblicità innovativo, con l'atleta che corre attraverso New York fin sulla Statua della Libertà e verso Manhattan, sull'acqua. Alla fine solleva un piede scalzo a farci vedere i segni di uno pneumatico sulla pianta, trasmettendoci l'idea di controllo, presa e velocità… tutte qualità che vorremmo accogliere nel nostro modo di funzionare, anzi sbocciare, come esseri umani. La scelta, tra parentesi, non è caduta su Lewis per caso. Con tutti quegli ori e quei record, era l'incarnazione stessa della forza e del controllo.
È Ambasciatore delle Nazioni Unite e membro dei comitati direttivi di svariate fondazioni, ad esempio Best Buddies International (che sostiene persone con disabilità dello sviluppo), Buoniconti Fund (per la cura la paralisi), e Greenpeace; ma su tutti spicca il suo incarico di allenatore nell'università in cui ha studiato così tanti anni fa, quando stava iniziando a progettare la carriera e la vita. Oggi insegna lo stesso controllo che un tempo utilizzava per plasmare il proprio futuro.
“Lo ripeto ogni giorno ai miei atleti – si tratta di dare il vostro massimo – non potete sapere chi vincerà, potete solo controllare cosa siete in grado di fare voi, e quindi concentrarvi su ciò che potete controllare. L'atletica di oggi è una metafora ancora più evidente della vita che quasi tutti conduciamo: gareggiamo quasi sempre contro noi stessi, non contro gli altri.
“Durante la mia infanzia e adolescenza, la ricerca del successo era una questione molto più politica; era legata all'uguaglianza, al rispetto, e a dimostrare qualcosa,” dice riferendosi ai sui genitori, innovatori in un periodo dominato, in America, dal movimento per i diritti civili. “Sono stati i primi nella loro famiglia a laurearsi. Dopo il college, mia madre è diventata amica di Rosa Parks e poi entrambi i miei genitori sono entrati nel movimento e hanno iniziato a lottare per ciò che era giusto… hanno fatto gli autisti durante il boicottaggio degli autobus.
Tentare di fare la differenza
“Martin Luther King ha battezzato i miei fratelli, eravamo in quella chiesa, a fare qualcosa di speciale,” continua. “Il potere esisteva già, in tutti noi, ma cercavamo di capire come usarlo. Chi ci è riuscito… chi è sopravvissuto sapeva quando fare pressione e quando fermarsi, ed era molto facile imparare queste lezioni dagli altri, perché vivevamo in questo modo ogni giorno della settimana.
“Immagino di essere stato fortunato, perché ho potuto imparare a imbrigliare la mia forza e liberarla al momento giusto nell'atletica,” ammette. “Il contesto in cui sono cresciuto, in un certo senso, è stato ideale per me perché a quei tempi, nel New Jersey, l'obiettivo non era vincere ogni volta – era semplicemente impossibile – ma essere la versione migliore di te stesso, provare a fare la differenza. Già questo era sufficiente. E lo è ancora.”
Evelyn, madre di Carl, non era una semplice voce politica. Deteneva il record nazionale per la corsa a ostacoli, ha gareggiato ai Giochi Panamericani del 1951, e solo un infortunio le ha impedito di realizzare il sogno olimpico. Insegnante, quando si è trasferita nel New Jersey ha avviato una campagna per organizzare gare su pista, diventando una delle principali figure di tutor sportivo della zona.
“Mia madre mi ha insegnato come avere successo senza vincere, perché all'inizio non vincevo mai. Tutti e due i miei genitori mi hanno incoraggiato a dare sempre il massimo, anche se finivo settimo o ottavo: lo facevo con la gioia nel cuore, dicevo ‘oggi ho battuto il mio record personale'.“
Superare gli ostacoli
Lewis insegna questa stessa filosofia agli studenti che prende sotto la propria ala. Tutto viene misurato, pianificato, con obiettivi e scadenze. Si accerta che i momenti di vittoria non vengano mai celebrati con eccessi; in questo modo, quelli negativi saranno più facili da affrontare.
“Devi gestire entrambi gli aspetti – ho vinto nove ori, ma anche un argento nei 200 metri alle Olimpiadi di Seoul del 1988. Sono andato a quei Giochi dicendo a me stesso che con 19,8 secondi avrei vinto l'oro.
“Ho corso i 100, i 200 e fatto il salto in lungo, e quando sono arrivati i 200 ero stanco, ma mi sono detto che potevo ancora farcela. Ho detto che potevo correrli in 19,8 secondi e avrei vinto, perché nessuno, nella finale di quell'anno, aveva mai corso meno di 19,9 secondi – ecco, mi ero scelto il mio obiettivo.
“Poi, in finale, il mio compagno di squadra Joe DeLoach corre i 19,75, e io i 19,79. Quando mi sono voltato per leggere i tempi ho detto ‘E va bene…', perché cos'altro puoi dire? Avevo fatto quello che mi ero ripromesso di fare; avevo controllato la situazione e seguito il mio progetto, solo che un'altra persona era in giornata, e va bene così.
“Non avere avuto subito successo come atleta mi ha aiutato moltissimo. Sapevo gestire gli ostacoli, ma soprattutto concentrarmi sugli obiettivi personali e poi ho cominciato ad applicare la stessa filosofia ad altre situazioni della vita. Questo approccio mi ha reso una persona migliore.”
Arrivare al meglio di sé
Lewis continua a segnare i traguardi del suo sviluppo intellettuale, e anche oggi si pone obiettivi sempre nuovi. “I momenti più importanti della mia vita sono stati a 19, 21, 23 e 31 anni. In ognuno di questi periodi ho capito che mi serviva un nuovo progetto, ma quando mi sono ritirato, nel 1997, non pensavo davvero di diventare allenatore,” ammette. “Eppure oggi lavoro con giovani atleti, e gestisco due programmi di insegnamento negli Stati Uniti. Faccio volontariato nelle scuole superiori e la mia fondazione sostiene famiglie e ragazzi; insomma, il mio piano si è evoluto.
“Per alcuni dei miei ragazzi sono come un padre, per altri come un fratello maggiore. Mi piace, ma non mi piace soltanto lavorare con loro e prepararli, mi piace vedere il loro sviluppo personale e individuale, nella vita come nell'atletica. Sono giovani, stanno imparando.
“Chiedo sempre ai miei atleti, ‘Come vi vedete a quarant'anni? Cosa volete fare con la vostra laurea? Quale obiettivo volete raggiungere?'
“E dico anche, ‘Forse ci riuscirete, forse no. In ogni caso, fate in modo di essere sempre voi a controllare la corsa'.”