Connessa alla natura più selvaggia
Io e mia sorella camminavamo da sei ore quando abbandonammo il sentiero poco battuto per avventurarci tra gli alberi. Seguivamo i consigli pubblicati dagli utenti nell'applicazione che usavamo come guida. Secondo gli escursionisti, per vedere Inspiration Point, il punto di osservazione più bello era quello senza alcun sentiero o indicazione. Valeva dunque la pena allungare il percorso, anche se prevedeva dieci miglia in più. Finimmo con il serpeggiare tra rocce enormi e alberi finché non si levò il vento e riuscimmo a scorgere uno spettacolo fantastico. La vallata delle Sky Islands si rivelò immensa ai nostri occhi. Si vedevano anche i Monti Chiricahua, una regione che ricopre circa settantamila miglia quadrate tra gli Stati Uniti Sudoccidentali e il Messico Settentrionale.
Camminammo fino al ciglio della roccia, il vento soffiava così forte che gli uccelli riuscivano a intercettare la corrente e planare senza battere le ali anche per minuti interi. Quel giorno ci aspettavano ancora tre miglia, i muscoli stanchi ci rallentavano e le nostre ombre si allungavano verso est: avremmo dovuto fare un paio di foto e proseguire. E invece, senza dirci nulla, lasciammo giù gli zaini e cominciammo a vagare da sole, fermandoci in posti diversi per godere il più possibile del paesaggio.
Sono cresciuta nell'Iowa rurale in una tenuta di sette acri di bosco, delimitata da una grande vecchia fattoria che i miei genitori, nei 18 anni che ho trascorso a casa, hanno lentamente trasformato in un rifugio fatto di buona cucina, buoni libri e delle migliori dormite che si possano immaginare. Fattoria o bosco, per me, mia sorella Caitlin e mio fratello Troy non faceva differenza: ci sentivamo a casa tra gli alberi così come nelle nostre camere. Non ricordo i miei genitori insegnarci i segreti di quel bosco, ma devono averlo fatto in qualche modo, perché abbiamo avuto sempre una profonda conoscenza di quel nostro angolo di natura.
Sapevamo che gli alberi più vecchi, quelli che svettavano maestosi sulle nostre teste e sul resto del paesaggio, erano olmi rossi, e che i miei alberi preferiti, ormai spariti da tempo, i cui rami esili servivano a costruire i nostri fortini e a creare corone intrecciate, erano salici piangenti.
Sapevamo che era facile trovare funghi tra i ceppi umidi degli olmi e dei frassini, ma camminavamo sempre con attenzione perché potevano spuntare da un momento all'altro, dove il giorno prima non c'era nulla. E sapevamo che la rosa multiflora, un arbusto proveniente da lontano capace di infestare e strangolare un intero bosco, riesce a tagliuzzarti come un foglio di carta se provi a passarci attraverso.
Sapevamo che quando le noci cominciavano a cadere in giardino, bisognava raccoglierle con i guanti per evitare di avere le dita marroni e farsi prendere in giro a scuola il giorno dopo.
Sapevamo che le gatte della fattoria partorivano nel sottotetto del fienile e che avrebbero spostato i loro piccoli tra la legna se ci fossimo avvicinati troppo o troppo presto. Se non riuscivamo a tenere in vita i cuccioli con un goccio di latte, sapevamo che i palla di neve o i lillà erano i fiori più belli per le loro piccole tombe, anche per quelle degli uccellini caduti dai nidi o per i mucchietti di pelo che trovavamo in giro, piccoli conigli finiti in pasto a qualche altro animale.
Sapevamo che l'inverno era dietro l'angolo, oltre i campi di mais tagliati e secchi, quando le oche cominciavano a spostarsi, starnazzando, in una fluida V per raggiungere il tepore del sud-ovest, e che i pettirossi all'inizio del nuovo anno promettevano il ritorno inevitabile della primavera.
Sapevamo anche come farla franca con i vestiti pieni di fango: ci spruzzavamo addosso l'acqua della pompa da giardino e lasciavamo i vestiti, certamente meno infangati ma ormai zuppi, ad asciugare sull'erba, prima di infilarli in fondo alla cesta della biancheria sporca sperando che nostra madre non se ne accorgesse. La mia infanzia è stata un ciclo continuo di vestiti infangati, vestiti puliti, libri da leggere. Vestiti infangati, vestiti puliti, libri da leggere.
Non conoscevamo quasi il significato della parola “tecnologia”. Computer e cellulari non hanno invaso la nostra vita prima delle scuole medie. E comunque ci sono riusciti a malapena. Anche in pieno inverno, lasciavamo a casa gli zaini, indossavamo la tuta da neve e andavamo fuori. Quando nevica, tra l'altro, il bosco diventa silenziosissimo, come quando arriva un ospite speciale e tutti trattengono il fiato.
Per i miei genitori, una coppia di classe media con tre figli, le vacanze di lusso non erano concepibili. Non che ne sentissimo il bisogno. Ci spostavamo in macchina e non in aereo, andavamo in campeggio invece che in albergo. Abbiamo visto South Dakota, Wyoming, Colorado, Minnesota, Missouri, Arkansas, Arizona e Wisconsin dalle tende da campo, attraverso le escursioni e le ore passate a esplorare luoghi selvaggi.
Il mio corpo – esperto conoscitore di quella natura selvaggia, sicuro in quell'ambiente che i miei genitori avevano costruito per noi – reclamava nuovi posti da esplorare. Appena compiuti i 18 anni, ho iniziato a vivere in alcune grandi città, una selva diversa. New York, Istanbul, di nuovo New York, poi Londra e adesso Los Angeles. Lo stesso ha fatto mia sorella: New York, Ibagué (Colombia), di nuovo un salto a New York, poi Minneapolis e adesso Los Angeles, come me.
Le nostre vite adulte sono state scandite dall'amore e dal disamore per diverse grandi città. Un tira e molla con tecnologia, trasporto pubblico, culture e lingue diverse; un nutrimento per la nostra mente, una costante onda di energia che amiamo cavalcare. Ma non è mai possibile cancellare il passato. I nostri corpi sono stati plasmati dai boschi e cercano sempre di ritornarvi.
Dopo anni trascorsi nelle giungle di cemento, io e mia sorella ci siamo ritrovate a cercare di nuovo la nostra idea di casa, mentre viaggiavamo insieme in Arizona, un luogo dove le nostre radici di famiglia sono profonde. Noi non ci abbiamo mai abitato, ma parte della nostra famiglia vive lì – cugini, nonni, zie, zii – e i nostri genitori si sono innamorati proprio in Arizona, prima di trasferirsi in Iowa e costruire la nostra famiglia.
Un giorno, a cena, decidiamo di scalare il Monte Camelback e il nostro avventuroso zio si offre di accompagnarci. Per evitare l'inferno che è l'Arizona nel letale sole estivo di mezzogiorno, ci mettiamo in cammino la mattina dopo, prima dell'alba, quando fa ancora buio. Mentre camminiamo, il sole fa capolino all'orizzonte, illuminandoci con una luce sempre diversa al passare dei minuti. Riusciamo quasi a sentire il risveglio della montagna al bagliore del sole, un rumore simile a quando si innaffia l'erba e il terreno scricchiola, se si è abbastanza vicini per sentirlo. Una volta in cima, guardiamo il panorama, ben più vasto di quanto i nostri corpi bruciati dal sole potessero percepire in quel momento. È Phoenix, una città alla quale la nostra famiglia è legata da generazioni.
Non abbiamo più fatto escursioni insieme per diversi anni, fino a quando ci siamo trasferite nella stessa città, Los Angeles, dove ormai abbiamo percorso quasi tutti i sentieri. Quando ci allacciamo gli scarponi, prima che il sole sorga e la città si svegli, i nostri corpi sono affamati di ciò che conoscevamo e provavamo da bambine; un legame con la terra, una separazione dalla città e da tutti suoi cavi, le sue onde che ci connettono a tutto il resto. In cima a ogni vetta scalata nel sud della California, come in cima al Monte Camelback, ci ritroviamo a guardare un paesaggio ormai urbanizzato, solcato dalle strade e punteggiato di ripetitori di segnale. Riusciamo sempre a controllare le e-mail, anche da lassù.
Era tardi quando partimmo da Los Angeles per le Sky Islands dell'Arizona, un antico fenomeno geologico formatosi ventisette milioni di anni fa, quando una massiccia eruzione vulcanica aveva coperto di cenere tutta l'area. Lentamente, con il passare dei secoli, il sole, il vento e soprattutto le forti piogge stagionali e le inondazioni avevano eroso la cenere, lasciandosi alle spalle gli amati hoodoos, "rocce erette"; così gli Apache Chiricahua chiamano queste sottili torri che spuntano da terra. Questo "massiccio" isolato è unico per diverse ragioni: per la sua storia, la geologia e anche la rara biodiversità, che ha trascinato dal Sud America alcune specie di piante, animali, uccelli e insetti. L'area sembra una città a sé: gli hoodoos sono i suoi grattacieli, che ospitano oltre trecento specie diverse di uccelli. Gli alberi e gli arbusti le umili dimore degli animali e degli insetti a terra. I sentieri come strade battute dai suoi cittadini: orsi, puma, armadilli e gli sporadici visitatori come me e mia sorella. Alla fine è questa la città in cui ci sentiamo a casa.
Portammo con noi più attrezzatura di quanto non avessimo mai fatto in passato. Volevamo addentrarci il più possibile nella natura selvaggia, a piedi, insieme. Le nostre ricerche online ci avevano avvertito: niente campo, o quasi, per i cellulari. Proprio quello che cercavamo. Il mio SUV può andare fuoristrada, trasportare diversi litri di acqua e frigoriferi portatili pieni di provviste ed è abbastanza comodo per una dormita di qualche ora o, in casi estremi, di una notte. Parcheggiammo l'auto e partimmo a piedi. I cellulari, con le batterie di scorta, ci avrebbero guidato via GPS, quando necessario, e una semplice bussola sarebbe stata il supporto di emergenza. Avevamo bisogno di scarponi tecnici fatti per camminate di diverse miglia, arrampicate di bassa difficoltà, guado di ruscelli, lunghe discese, corse (se necessario) e, questo era il vero test, che fossero abbastanza comodi anche per il giorno dopo. Avevamo bisogno di zaini leggeri ma robusti, capaci di trasportare tutta la nostra attrezzatura – borracce d'acqua per un'intera giornata, provviste e qualche ricambio – senza pesare troppo su spalle e schiena. Avevamo bisogno di crema solare, filtri d'acqua, un kit di pronto soccorso, un asciugamano... è faticoso tagliarsi fuori dal mondo urbano. Eppure, come scrive con passione Edward Abbey nel suo bellissimo Desert Solitaire, come solo lui sa fare: “Primo, dalla macchina non vedrete niente; dovete scendere da quel maledetto aggeggio e camminare, meglio ancora strisciare, usando le mani e le ginocchia, sull'arenaria e tra i rovi e i cactus. Quando il sangue segnerà il vostro cammino forse comincerete a vedere qualcosa." [Abbey, E. 1968, Desert Solitaire, Una stagione nella natura selvaggia, traduzione di Stefano Travagli, Milano, Baldini e Castoldi, 2015 N.d.T]
Noi volevamo vedere qualcosa. Sentire qualcosa. Non saremmo tornate a casa a mani vuote.
E riuscimmo a raggiungere l'obiettivo. I muscoli doloranti, le ginocchia sbucciate, le ore passate a camminare in silenzio, troppo stanche per parlare, le dita delle mani gonfie, quelle dei piedi schiacciate, le scottature nei punti dove avevamo dimenticato la crema solare, il respiro affannato, non avvezzo all'altitudine. Ne era valsa la pena. Vedere tutto questo.
Non so quanto tempo passammo in silenzio, sedute sulla roccia, a osservare la vallata dalla quale eravamo partite, a guardare gli uccelli giocare nella corrente, ad ascoltare il vento mentre si faceva largo tra gli alberi attorno a noi. A un certo punto ci alzammo e tornammo agli zaini. Restammo in piedi davanti a quelle borse – piene di tutto il necessario per sentirci disconnesse dal mondo esterno – scambiandoci un sorriso. Mentre tornavamo verso il sentiero, mia sorella, indicando il gruppo di hoodoos, mi disse: "È come se sapessero che siamo qui". E so che può sembrare folle, ma penso che avesse ragione. Non ci eravamo disconnesse. Era proprio il contrario.