Chi è Ivan Ramen, il mago (americano) dei noodles
Il cognome di Ivan è Orkin ma ormai tutti lo conoscono come Ivan Ramen. Prevedibile se si pensa che nel 2006 ha deciso di sfidare la tradizione e il gusto giapponesi aprendo il suo primo ramen shop nel bel mezzo di Tokyo. Un amore, quello per la cultura e la cucina giapponese, nato quando Ivan era un teenager e che lo ha portato a trasferirsi in un paese che nel 1987 era ancora molto chiuso e respingente per chi non era orientale. Orkin ha scelto di accettare la sfida di una cultura diversa ma soltanto dopo l'incontro della sua seconda moglie giapponese - Mari - ha accettato quella di credere in se stesso e nella sua passione, che lo ha portato a un successo impensabile. Nonostante la perdita della prima moglie e le difficoltà di essere uno straniero, Ivan ha scommesso nel gusto della sua zuppa di noodle, nei suoi accostamenti insoliti ed è riuscito a conquistare il palato e la fiducia di un paese dalle tradizioni estremamente rigide. Dai primi dieci coperti di Setagaya, oggi Ivan dirige un piccolo impero di ramen diviso tra Giappone e l'America e a chi gli chiede se è un ramen chef risponde: «I'm not a ramen chef, whatever the fuck that is. I'm a cook».
Hai vissuto molte esperienze dure che per molti sarebbero state motivo di resa. Cosa ti ha fatto andare avanti?
Credo che tutto sia cambiato quando ho deciso di aprire il mio primo ramen shop. Era il momento giusto per iniziare qualcosa di nuovo, mi ero ritrasferito in Giappone e nonostante potesse sembrare un'idea folle, proprio per questo mi sembrava un'idea molto affascinante. Non potevo avere alte aspettative, e nemmeno gli altri. Se fallivo potevo alzare le spalle e dire “potevo immaginarmelo”. Ma era un'idea che mi affascinava perché amavo il ramen, lo mangiavo ogni giorno e quindi ho pensato che potesse essere molto bello impararne i segreti.
Nell'episodio a te dedicato della serie Netflix “Chef's Table” una delle sensazioni più forti che ho avuto è l'importanza di qualcuno che credesse in te.
Le persone che mi hanno conosciuto prima che incontrassi la mia seconda moglie non mi hanno mai visto come un leader, come una persona che di solito portava a termine i progetti, raggiungeva gli obiettivi. Sono cresciuto in una famiglia dove tutti erano molto vincenti, con ottimi risultati a scuola, persone di successo in cose “convenzionali”. Anche loro faticavano a vedermi un vincente, ma con l'incontro di Mari, avendo vicino qualcuno che mi supportava, tutto è cambiato. Ho iniziato a credere in me stesso e questo è stato il vero cambiamento, anche per me.
Quando hai capito di esserti innamorato del Giappone?
Me ne sono accorto prestissimo, già al liceo quando lavoravo in un sushi bar di New York. Qui ho conosciuto delle persone bellissime, il cibo era delizioso e questa combinazione mi ha subito conquistato. Così, quando ho dovuto decidere cosa fare al college, ho scelto di studiare giapponese e conoscere il più possibile questa terra e le sue abitudini. Mi sono trasferito in Giappone quasi subito per coronare quella che era diventata una vera e propria passione.
In Giappone la connessione tra spiritualità e vita quotidiana è molto forte. Ti senti parte di qualcosa di più grande?
Mia moglie è giapponese e in famiglia parliamo due lingue, mangiamo, ci vestiamo mescolando le due culture. Quando sono in America mi sento comunque a casa, ma ormai ho vissuto qui quasi un terzo della mia vita, quindi mi sento parte di questa cultura a tutti gli effetti. Ormai “I'm a Tokyo guy” e appena atterro in Giappone sento di entrare in quel “qualcosa di più grande” tipicamente giapponese.
Cosa vuol dire essere un “American guy in Tokyo”?
Si tratta di un processo lungo ormai trent'anni. Il Giappone oggi è un paese molto diverso rispetto a quando sono arrivato io, sta diventando un paese internazionale in maniera rapidissima. Credo che nel 1987, l'anno in cui arrivai per la prima volta, ci fossero tantissime persone che non avevano mai incontrato una persona non giapponese. Ancora oggi ce ne sono molte, ma anche nell'America più profonda c'è chi non ha mai incontrato un cinese o un giapponese. In quegli anni rapportarsi con le persone era complicato, nessuno parlava inglese, ma allo stesso tempo era eccitante perché si interessavano alla mia storia.
Parli del ramen come di un piatto senza regole. È curioso perché il Giappone è noto per esserne pieno. Perché hai scelto questo contrasto?
Non sono necessariamente attratto da qualcosa senza regole, ormai sono un cittadino giapponese doc e il Giappone è un paese orribile se non ami le regole. Sapevo che da straniero il ramen sarebbe potuta essere un'opzione ideale perché fino a poco tempo fa non godeva del rispetto che invece ha ora. Fino a poco tempo fa se si parlava di ramen come di una vera e propria cucina i giapponesi ridevano, come in America con gli hamburger o lo street food. La gente che amava il ramen era molto più attenta al sapore che allo stile o alle regole di preparazione. In un sushi bar la flessibilità non esiste e in questo sono perfettamente d'accordo. Nel ramen la differenza è una ricchezza.
Ti sei confrontato con uno dei cibi più iconici. Cosa ne pensi della “cultural appropriation”?
Il Giappone è la terra dell'appropriazione. Nei secoli i giapponesi si sono ispirati a tantissimi influssi differenti e quello che più la gente ama di questo paese è la sua capacità di prendere qualcosa altrui declinandolo con un suo stile, trasformandolo in un qualcosa che sembra originario dell'Oriente. Ad esempio il tonkatsu - che tutti credono giapponese - deriva da un piatto portoghese. Non credo che la cultural appropriation sia un problema, credo che creare sia la conseguenza delle tante esperienze e insegnamenti che poi vengono metabolizzati attraverso le proprie capacità.
Il tuo account Instagram è ricco di cibo italiano e sei socio di “Corner Slice”, una pizzeria newyorkese. L'Italia è la tua prossima sfida?
Ahah, no. Ma sono nato e cresciuto a New York e credo che noi newyorkesi abbiamo un forte sentimento italiano. C'è un legame speciale con questo paese, i tanti italiani che sono arrivati qui la hanno resa una grande città. Sono cresciuto mangiando pizza e cibo italiano, e ho deciso di aprire una pizzeria perché credo che in questi anni il concetto di pizza stia cambiando radicalmente e quindi avevo voglia di offrire un prodotto buono e fatto con ottimi prodotti.