Serotonina, dopamina, endocannabinoidi: sono tutti neurotrasmettitori, ossia sostanze chimiche di cui si servono le cellule del sistema nervoso per comunicare tra loro e mediare determinati stati d'animo. In altre parole, il loro rilascio in specifiche sequenze determina l'emozione della felicità nell'essere umano.
Il 28 giugno 2012 la felicità e la sua stessa ricerca sono state considerate dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite come “[...] uno scopo fondamentale dell'umanità, [...] riconoscendo inoltre un approccio più inclusivo, equo ed equilibrato alla crescita economica che promuova lo sviluppo sostenibile, l'eradicazione della povertà, la felicità e il benessere di tutte le persone”. Da allora, ogni 20 marzo, si celebra la giornata mondiale della felicità, ma cosa succede davvero al nostro cervello quando siamo felici?
“La domanda potrebbe essere fuorviante, perché se è vero che la felicità origina dal nostro cervello quando si attivano alcune aree quali la corteccia cingolata, l'insula di Reil e la corteccia prefrontale – le stesse che si attivano quando si è tristi –, noi correliamo la felicità a specifiche sensazioni corporee che sono il correlato somatico di questa emozione”. A rispondere è Alberto Priori, neurologo dell'Università degli Studi di Milano.
La felicità dunque, come tutte le emozioni, comporta la modulazione del sistema nervoso simpatico che determina alcune di queste manifestazioni corporee delle emozioni. Per esempio, determina l'aumento dell'adrenalina che può provocare tachicardia, sudorazione e alterazione della pressione sanguigna e della frequenza respiratoria che caratterizzano anche la paura.
“Possiamo dire che il cervello è la stanza dei bottoni della felicità che viene percepita come uno stato d'animo di positiva pienezza e soddisfazione associato a una sensazione fisica di benessere”. Il neurologo aggiunge che “la felicità è da considerarsi come una sorta di muscolo e in quanto tale deve essere allenato e in qualche modo mantenuto efficiente, coltivando abitualmente emozioni, stile di vita sano e pensieri positivi”.
Le parole impiegate quotidianamente possono infatti contribuire al nostro stato emotivo e quindi in ultima analisi, alla felicità. Il linguaggio può indurre infatti cambiamenti complessi nel cervello, provocando trasformazioni emotive che dipendono direttamente da alcune sostanze chimiche. “Abituarsi a usare e ascoltare un linguaggio positivo – banalmente un posso farcela o andrà tutto bene – ed evitare l'impiego di espressioni negative – non posso farcela, è impossibile – può contribuire nel quotidiano alla determinazione della propria felicità”, spiega ancora Priori che è anche coautore del recente libro “Abracadabra. Il potere curativo delle parole tra mito, tradizioni e neuroscienze”, edito da Milano University Press (2023).
Sorge spontaneo allora domandarsi se questa emozione non possa essere in qualche modo insegnata. Tra i corsi più autorevoli che si pongono l'obiettivo ultimo della cosiddetta ricerca (e scoperta) della felicità, si trova senza dubbio The Science of Well-being dell'Università americana Yale, che dato il successo riscosso è stato digitalizzato e reso disponibile sulla piattaforma di e-learning Coursera. La scienza della felicità, come insegna il prestigioso ateneo, nasce dall'incontro tra scienze ormai consolidate come la psicologia, la sociologia, la biologia, la fisica quantistica e anche, chiaramente, le neuroscienze. Questa unione ha portato conseguentemente al delinearsi della psicologia positiva di Martin Seligman, un modello per comprendere quali fattori siano davvero in grado di influenzare la psiche per raggiungere uno stato di appagamento.
“Insegnare la felicità è però difficilissimo in quanto per fortuna, malgrado l'effetto dei media che tendono a produrre standard di felicità a volte nefasti, resta un'emozione del tutto individuale frutto di un'alchimia che la rende unica in ciascuno di noi”, segnala il neurologo. “È possibile invece valorizzare determinati strumenti che abbiamo per percepire e assimilare al meglio questa emozione. La felicità è infatti una dimensione molto più ampia che va al di là dell'ottimismo o di uno stato di benessere. È una dimensione così individuale che possiamo assimilarla, quasi un'impronta costituzionale insita in ognuno di noi”.
Proprio sul medesimo argomento, uno studio portato avanti nel 1996 da un duo di ricercatori dell'Università del Minnesota, Anke Tellegen e David Lykken, sosteneva come la felicità dipendesse da un mix di genetica (50%), vicissitudini ed esperienze di vita (10%) e da una componente modificabile grazie al lavoro attivo per il suo stesso raggiungimento (il restante 40%).
La capacità di provare gratitudine, quella di perdonare, l'ottimismo sono tutti elementi infatti che vengono considerati come fondamentali per influire certamente sugli effetti genetici e ambientali, aiutandoci nella ricerca di una personale felicità. È sempre questione di pratica nel ricercarla in ogni dettaglio della nostra quotidianità.