Nella vita dell'artista Peter Beard, il rischio ha sempre avuto un ruolo fondamentale. Costantemente in viaggio, per tutto il mondo, ha trascorso parte della sua esistenza nelle terre keniote, da cui ha documentato sia la bellezza naturale dell'Africa sia il suo decadimento ambientale.
Noto per l'intensità delle sue opere, fotografie e patchwork che diventavano veri e propri diari, ha raccontato la bellezza e la terribile poesia di un continente che stava affrontando la modernizzazione, scattando immerso sino alla cintura nelle paludi, con le gambe sanguinanti avvolto in un pareo keniota, nuotando insieme ai coccodrilli, e rischiando nel 1996 durante un servizio fotografico, di morire sotto al peso di un elefante.
Beard, che ha viaggiato oltre la fine del mondo, e impresso su tavole le proprie percezioni, fu l'autore del Calendario Pirelli del 2009, il 36esimo TheCal. Il set era in Botswana, tra l'oasi acquatica del delta dell'Okavango e la distesa arida del deserto del Kalahari. Qui Beard scattò le sue sette modelle raccontando di una natura possente e allo stesso tempo ferita, facendo propria la filosofia di Fedor Dostoevskij, per il quale «solo la bellezza salverà il mondo».
Le ragazze sdraiate accanto a pachidermi imponenti, arrampicate sugli alberi o ricoperte da serpenti, hanno trascorso 15 giorni sul set africano prestando il proprio volto a una causa ambientalista, prima che estetica, proponendo un messaggio – quello di Beard – di un genere umano incapace di salvarsi da solo, ma bisognoso della ricerca della verità attraverso la magnificenza della natura.
Il risultato finale fu un calendario-diario, definito dallo stesso fotografo come “una scultura vivente”, composto da 56 tavole, citazioni, osservazioni dell'artista sull'ambiente e sull'impoverimento delle risorse naturali. «La mia vera preoccupazione è la distruzione della natura», aveva detto, «abbiamo totalmente dimenticato che è lei ciò a cui dobbiamo la nostra sopravvivenza».
Rischio e senso dell'avventura non lo hanno abbandonato neanche nell'ultimo periodo, prima di scomparire dalla sua tenuta sulla scogliera a Long Island, a New York, città in cui era nato il 22 gennaio 1938 da una famiglia dell'alta borghesia. Dopo la laurea in storia dell'Arte all'Università di Yale, nel 1961 Peter Beard conobbe in Danimarca Karen Blixen, autrice de La mia Africa, con cui collaborò, acquistando un ranch dalle parti di Nairobi, costruito su 45 acri di savana e vicino a quello della scrittrice danese. Erano lui, lei, i grandi mammiferi dell'Africa e una fotocamera, una Voigtländer.
Fu durante questi anni che Beard si avvicinò alla fauna del luogo, da cui rimase affascinato sin dall'età di 17 anni, ammaliato da un'esposizione al Museo Naturale di New York. Nel 1965 pubblicò il libro The End of the Game, una raccolta di fotografie e testi che documentavano la scomparsa degli elefanti in Kenya e la fine del mito dell'invulnerabilità della natura. Ed è per questo che le sue immagini da quel momento iniziarono a sorprendere, per la drammaticità con cui raccontò e delineò una realtà nuova, strappando quel velo troppo romantico che aveva avvolto le narrazioni sull'Africa: i suoi elefanti in bianco e nero erano emaciati, malati, affamati, non più trionfali come certi reportage a cui il mondo era stato abituato.
E' negli anni Settanta, quelli della vita notturna scatenata insieme a Andy Warhol e Truman Capote, e delle giornate trascorse a parlare con l'amico intimo, Francis Bacon, o in compagnia di Jacqueline Kennedy Onassis e di sua sorella, Lee Radzwill, con cui intraprese un'appassionata relazione, che Beard iniziò, lentamente, a fare della sua vita una vera opera d'arte. Dedita all'avventura, all'esotismo e all'estetismo sfrenato.
Ne divennero manifesto anche i suoi lavori, presentati durante la prima kermesse fotografica del 1975 alla Blum Helman Gallery di New York e poi all'International center of Photography nel 1977. In mostra, oggetti africani, cimeli personali, e ovviamente fotografie, su cui iniziò ad apporre un segno personale, come un marchio. Seguì i Rolling Stones in tournée, lavorò con Veruschka; dividendosi quindi tra le belve naturali e la jungla della socialité di Manhattan, rappresentata dallo Studio 54, dove al suo tavolo Beard non era mai da solo.
Perché Peter Beard non conosceva momenti che non fossero votati al pericolo, e nemmeno categorie. La sua stessa arte sarebbe difficile da classificare, con quelle fotografie che erano altro, immagini, scritti, dipinti, citazioni ed enormi collage viventi. Vivaci testimonianze dell'ambiente e del destino del pianeta. Fino alla fine, per la creazione delle sue opere ha raccolto ciottoli, pezzi di legno, pelli di serpente, sabbia, piume, farfalle, ossa, alghe, sangue (anche quello di Ava Gardner, che dopo essersi tagliata con un bicchiere di vetro, vide Peter Beard raccogliere qualche goccia e imprimerla sulle pagine di un diario).
Ritagli, impressioni, tracce per raccontare una vita che lui stesso ha reso un'opera d'arte e di sopravvivenza. Il suo ricordo è rimasto impresso ovunque, come testimonia il proprietario della Fahey Klein Gallery, David Fahey. «Ha passato la sua vita a esplorare il mondo, lasciando ovunque tracce di sé».