Laure Prouvost, vincitrice del Turner Prize e del Max Mara Art Prize for Women nel 2013, nella sua ricerca fagocita la comunicazione ipertrofica contemporanea, il consumo frenetico di immagini e il non-senso dato dall'iper-senso, l'hype. Le sue opere parlano tutte le lingue possibili e offrono un numero illimitato di risposte, come uno specchio rotto o l'infinite scroll, la nuova magic 8 ball; finzione, immaginazione e dada si mescolano nella realtà quotidiana a oggetti naïfs ed emozioni prosaiche, le spazzole si frantumano in mille particelle visive, le corolle dei fiori mentre si baciano ci parlano: “We are so happy you made it… We love you… We have been waiting so long for you to arrive”. I suoni sono rassicuranti, ma lo spazio è instabile e labirintico, in perenne divenire, costantemente mediato dalla tecnologia. Il percorso dell'esposizione attraversa ambienti stranianti e atmosfere paradossali, a metà tra il pop e il virtuale: un salone di bellezza, superfici riflettenti, stanze inclinate, spigolose, corridoi scuri, un'area in cui si offre il tè (per la nonna: In Grandma's dream there would be planes which are half teapot half planes and which serve tea to everyone in the world) e una per il karaoke (chissà per chi – per lei, per noi, per i fiori). Tutto questo legato da luci, figure, parole scritte e giustapposte, sovrapposte, sussurrate, sommerse dalle visioni. Per una volta la contemplazione si trasforma in fretta in vera e propria euforia, go faster, una sorta di Apocalypsis cum figuris.
Tra le opere presentate: If It Was (2015), Into All That Is Here (2015), We Know We Are Just Pixels (2014), Grandma's Dream (2013), Before, Before (2011), The Wanderer (God First Hairdresser/Gossip Sequence) (2013) e I Need to Take Care of My Conceptual Granddad (2010). Grand Dad's Visitor Center è infatti ispirato, come suggerisce il titolo, alla presunta storia del nonno di Laure Prouvost, prolifico artista concettuale che, scavando un tunnel tra il suo studio e l'Africa, un giorno sparì, lasciando la moglie, oltre che sola, unica custode delle sue opere. Ma l'idea del progetto di Prouvost nasce già nel 2013, con l'installazione video Wantee, in cui compaiono alcune sculture del nonno trasformate ormai in oggetti di uso domestico. Visitor Center si pone come una riflessione più ampia sul significato stesso di museo come luogo deputato alla conservazione di opere d'arte, necessario per la loro futura trasmissione, ribaltando questo dato di fatto. E se il museo non fosse un luogo in cui si ci si sente costretti a bisbigliare? Se fosse un posto in cui ballare e cantare, in cui entrare davvero in relazione con l'opera d'arte e con le emozioni che ci suscita? Se i visitatori fossero accolti con un bacio? Se invece di sentirsi controllati dalle guardie potessero non solo toccare le statue, ma accarezzarle, come nel video If It Was (2015)? Eppure il museo resta un luogo dove il passato, con le sue muffe e le sue brume, assume significato non solo nel presente, ma nel futuro, e le sue convenzioni fanno parte di quel rito che ci permette di essere trasportati “attraverso il tunnel della storia” verso “altri luoghi”. Forse è per questo che lo spettatore viene costantemente chiamato dalla voce dell'artista e invitato ad agire lo spazio, rompendo la convenzionale e rassicurante distanza fra spettatore e finzione narrativa. Bisogna spostarsi, danzare, toccare, assaggiare: come se fosse necessario ampliare i confini sensoriali per aumentare quelli della propria immaginazione.
Tema centrale della mostra insieme all'identità, ça va sans dire, è il linguaggio. L'artista, come fa con qualsiasi altro tipo di convenzione, mette in discussione anche – e soprattutto – il significato delle parole. In altri termini: traduce. Prouvost tradisce per mettere in difficoltà quella forma nata dall'abitudine e svelarne le parti vergini, in un costante meccanismo sinestetico: trasforma il testo in immagini, traspone un film in scultura e così via, fino a generare una confusione interpretativa totale – anche, letteralmente, attraverso la traduzione sfalsata dal francese (la sua lingua madre) all'inglese (idioma assimilato nei quasi vent'anni trascorsi a Londra). Ed è qui che questi due grandi percorsi si intersecano: chi sono io se non so più capire, se non so più percepire univocamente qualcosa, se mi allontano troppo dalle mie coordinate cognitive? Sembra essere questa la domanda che ci pone indirettamente l'artista, e con un sorriso complice allo stesso tempo sembra rassicurarci: esistiamo ancora, anche se siamo confusi, anche se stiamo sognando, anche se per un attimo non sappiamo più esattamente chi siamo, anche se ci siamo persi in un tunnel, come il presunto suo nonno. Quindi andate e perdetevi tutti: “You are off to better places, trust us”.