Chi è Ugo Nespolo? Quando la sua arte incontra il mondo dell'industria e dell'automobile in particolare?
Incominciamo col dire che la mia idea di artista e del campo in cui l'artista deve operare, si rifà alla visione delle avanguardie storiche. In particolare per alcune di loro, tra cui sicuramente il futurismo, l'artista non era uno che si limitava a fare i suoi quadretti, ma al contrario era colui che si legava, si amalgamava col mondo reale e con la vita reale, di cui la tecnologia, l'industria fanno parte. “Più bello della Vittoria di Samotracia” diceva Marinetti dell'automobile. I futuristi erano molto interessati al tema della velocità e quindi ecco che l'automobile era un fatto importante. Per me, a distanza di un secolo, non è più la velocità il concetto centrale, ma la spinta a voler mettere il naso fra le cose per tentare di creare quel ponte ideale, quel collegamento auspicabile fra l'arte e la vita. Come dicevo prima, l'artista non è colui che fa il suo quadretto, ma uno che vuole entrare davvero nel merito delle cose, che vuole partecipare alla vita, che vuole essere un testimone della vita reale. Quindi l'artista non può che essere contemporaneo: per forza. Quello che mi ha sempre interessato è stato collegarmi con i molteplici aspetti della vita reale, dove l'industria ha un ruolo fondamentale, importante. Marinetti, Depero, Balla, ma anche le avanguardie tedesche – se pensiamo al Bauhaus di Weimar – sognavano di entrare a pieno campo nel mondo della vita reale. Cioè nel mondo della vita e basta. In effetti nel corso degli anni ho lavorato tantissimo con l'industria e con molte grandi aziende: FIAT, Renault, Toyota, fra le automobilistiche, ma anche BMW. Ho lavorato a una moto da corsa per Ducati, a una Vespa per Piaggio. Ho creato tanto anche per altre industrie di altri settori. Ecco, questa è secondo me l'unica scappatoia che gli artisti hanno per evitare di essere considerati degli oggetti inutili nel sociale, quelli che producono dei bei decori per i salottini buoni. A me questo non è mai piaciuto, al contrario ho sempre cercato di addentrarmi nei diversi temi della realtà. E – lo ripeto – anche nel tema dell'industria automobilistica.
C'è stato un tempo in cui l'auto stravolgeva l'immaginario collettivo, e così anche l'arte. Oggi che cos'è un'automobile agli occhi di un artista?
In passato – parliamo del primo Novecento, degli anni in cui nasce – l'automobile per gli artisti era un mito. Ho detto prima di come la considerava Marinetti nel suo Manifesto futurista: “Più bello della Vittoria di Samotracia”. Ma penso anche agli artisti francesi, a Sonia Delaunay, per esempio, all'auto dipinta da lei in maniera così eclatante, così nuova. L'automobile è un mezzo della modernità, è legata all'emancipazione dell'uomo, al movimento individuale e quindi alla possibilità di essere davvero indipendenti. Oltre a questo, c'è anche il mito della bellezza dell'auto, che è anche il mito della bellezza degli oggetti, in questo caso degli oggetti in movimento.
Già nell'Ottocento alcuni artisti inglesi – i Preraffaelliti e altri gruppi di esteti – cercavano di rendere unici anche gli oggetti dell'industria. Lo scontro avveniva proprio fra ciò che si faceva manualmente e ciò che si poteva produrre industrialmente, fino a che il design ha cercato di mettere insieme - non sempre con degli esiti positivi - la bellezza con l'utilità. Oggi cosa resta dell'auto? Beh, di quell'auto, poco, nel senso che l'auto – quella che usiamo tutti – è un oggetto strumentale, che serve per spostarsi. Ma esiste un'altra auto, come quella che abbiamo fatto adesso per Porsche, un'auto con una vocazione esibizionistica, artistica, con una ricerca che lavora più nell'immaginifico, che nell'utilizzo. Questo resta. Resta il sogno di una macchina particolare, di un pezzo unico, di un oggetto ricercato, fatto – direbbero gli inglesi – per la connoisseurship. Che è cosa diversa dall'oggetto che serve per andare da casa all'ufficio. Oggi, per chi se lo può permettere, l'auto può diventare ancora un oggetto da collezione, un oggetto esclusivo. Non tanto per andare più forte, ma per essere unici.
Parliamo della “Torino-Zuffenhausen”: come è nato questo progetto di car art e come si è concretizzato?
Il processo è stato molto semplice, nel senso che Stola, di cui sono molto amico, voleva fare una macchina speciale che rendesse omaggio al legame nato oltre 70 anni fa fra la casa automobilistica Porsche e la città di Torino, sede del primo Salone dell'Auto all'aperto. Zuffenhausen è il nome del distretto di Stoccarda dove risiede Porsche. Da qui la Torino-Zuffenhausen e l'idea di farle fare, a Salone dell'Auto concluso, il viaggio di collegamento lungo 626 chilometri. La macchina che mi ha proposto Stola è un pezzo unico che si chiama Moncenisio e ha il colore del lago del Moncenisio. Ogni particolare dell'auto è fatto da un grande specialista - dal serbatoio, agli interni, ai pneumatici - insomma una macchina d'eccellenza.
Ho pensato di sviluppare la mia opera principalmente nella parte inferiore della carrozzeria mantenendo volutamente intatto il design della zona superiore per lasciare libero il colore originale. Mi ha ispirato l'idea dell'Italia e della Germania unite nella passione e nella competenza per l'automobile. Così ho preso i sei colori delle due bandiere e li ho disposti in modo non ordinato, creando un'idea di movimento. Un omaggio un po' ideale al futurismo in qualche modo.
Mi ha molto soddisfatto lavorare anche alle gomme colorate P Zero di Pirelli, l'ho trovata una novità assoluta, una cosa piuttosto bella, una cosa che piace molto alle persone. Mi sono sempre chiesto in effetti perché negli anni ‘30 e ‘40 in America si facessero le gomme bianche e adesso non si fanno più. Probabilmente per motivi tecnici. Comunque sarebbe bellissimo fare le gomme tutte a colori, sono sicuro che piacerebbero molto. Io avrei già in mente come disegnarle.