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Professione innovatore

Tom Dixon è un product designer britannico con una carriera e idee uniche e stimolanti. Autodidatta al 100%, ha aperto il suo primo studio a Londra negli anni Ottanta. I primi progetti di Dixon sposavano l'arte della saldatura per fondere e creare nuovi oggetti d'uso quotidiano e componenti d'arredo. Nel 1992 è diventato direttore creativo di Habitat e nel 2002 ha sfidato la fortuna fondando la sua azienda. Con sede a Londra in Portobello Dock, la Tom Dixon sviluppa progetti e prototipi originali; tutte le fasi, dalla produzione alla distribuzione e il marketing, sono svolte internamente all'azienda. Tanti metalli, inclusi rame e ottone, costituiscono spesso le basi dei suoi progetti, proprio come agli albori della sua carriera. Oltre all'innovazione, comunque, la forza che ha dominato e domina tuttora la sua carriera è la curiosità: Dixon, infatti, è sempre alla ricerca di nuovi materiali e tecniche da padroneggiare, così come nuovi modelli di business e innesti inusuali con altre discipline. Nel 2007 il product designer ha dato vita al Design Research Studio, ampliando il raggio della sua attività così come dell'intero settore della progettazione. Lo abbiamo incontrato al ristorante The Dock Kitchen, un altro dei numerosi progetti di Dixon (che di recente ha anche aperto un ristorante nel suo studio) per parlare della sua propensione ad esplorare nuovi territori, del futuro e dell'arte del design, e del suo approccio unico alla creazione.

Crediti: immagini cortesia di Tom Dixon Studio

La su carriera nel design è iniziata con un allontanamento dalla scena musicale e dei club dei primi anni Ottanta e con i primi esperimenti con la saldatura. Le capita ancora di sentire l'impulso di cambiare direzione?
Sì, e credo che una volta migliorata l'organizzazione (del brand) diventerà sempre più semplice farlo. Ho preso un'altra direzione abbandonando il posto di direttore creativo di Habitat e aprendo un mio marchio, che è stato un altro bello shock per il sistema. E prima ancora ho cambiato direzione passando dall'essere un piccolo creatore di opere metalliche indipendente al diventare direttore creativo in una grande azienda di lusso. Quindi spero che ci siano ancora un po' di colpi di scena in serbo per me. È questo il bello di essere un designer: in un certo senso si tratta di un lavoro molto più trasferibile di altri. Ogni volta che lavori in un nuovo settore scopri un mondo nuovo che ti stava aspettando. Mi piace questo lavoro perché mi offre l'opportunità di esplorare altri mondi, e mi piace farlo da amatore, nel senso più puro del termine. In francese un amateur è qualcuno che ama fare qualcosa senza scopo di lucro, per puro divertimento. Questo non vuol dire che non abbia talento. Penso che ci sia una tradizione tutta inglese di fare le cose come hobby, e credo di rientrarci anche io. Darwin, ad esempio, era un amateur. Ciò ti permette di vedere le cose da un'altra prospettiva. Questo ristorante è un ottimo esempio: non avevo alcun desiderio di diventare un ristoratore, ma quando ci siamo trasferiti in questo studio... beh, c'era una cucina. 
Ho imparato il valore del cibo in un'ottica commerciale e di design in Italia. Si passa così tanto tempo discutendo di cose; gli americani sono così concentrati sulla “riunione” e sul “fare la riunione”, o su una questione ben precisa, mentre gli italiani semplicemente non ne parlano, oppure aggirano l'argomento, e sono capacissimi di farlo per due ore, davanti ad un buon pasto. A volte queste decisioni sono le migliori e sono il risultato del non affrontare un problema di petto. 

Ci sono momenti in cui si ritrova a prendere una direzione più conservativa, o a scegliere un'opzione più “sicura”, o magari classica?
Penso che tutte le aziende attraversino una sorta di crisi di mezza età durante la loro crescita. C'è una forte pressione a ripetere quello che si è già fatto ed è necessario un grande sforzo per non farlo. Questo è il punto più difficile. Penso che troppo spesso quando crei un prodotto di successo tutti vogliono che tu ne faccia un altro. Il fulcro della mia carriera è proprio evitare di essere ripetibile e di ripetermi. Questo diventa sempre più difficile quando ti circondi di esperti e persone che dicono “Abbiamo venduto questo l'anno scorso, quindi dobbiamo venderlo di nuovo.” Il pericolo di diventare conservatori c'è, e affligge tutte le aziende.

La nostalgia ha giocato un ruolo particolare durante la sua carriera di designer?
Nostalgia? Mi piacciono ancora gli oggetti creati a mano o attraverso il contatto umano: forse sono nostalgici, oppure il futuro. Gli anni Sessanta o gli anni Trenta mi piacciono molto e ne ho nostalgia perché si avvertiva un vero momento di cambiamento. Per i primi trent'anni della mia carriera di designer ho pensato che sarebbe stato molto meglio lavorare nella Milano degli anni Sessanta con tutti quei designer incredibili, o negli anni Venti nell'affascinante e brulicante scena parigina, oppure ancora negli Stati Uniti degli anni Settanta. Ma in realtà penso che il nostro sia un periodo di cambiamento radicale. Probabilmente sta avvenendo un po' più lentamente e in modo impercettibile nell'industria manifatturiera piuttosto che nella scena musicale o nell'ambito editoriale, dove si sono verificati cambiamenti sismici e non sempre per il meglio, ma sicuramente queste modifiche ti spingono ad essere più creativo e offrono anche grandi opportunità.

Crediti: immagini cortesia di Tom Dixon Studio

La parola “innovazione” è talmente abusata da perdere significato. Come descriverebbe il concetto di innovazione oggi? Qual è il modo migliore per evitare una nozione che è finita col diventare conformista?
Abusiamo di tante parole. Il termine design è più abusato di innovazione. Penso che la parola innovazione sia un po' più specifica: se una cosa non è nuova, non può essere innovativa. Per fare un esempio semplicistico: se sei in grado di fare qualcosa che nessuno ha mai visto prima o di migliorare le cose in modo tangibile, allora si parla di innovazione. Tante parole diventano ridondanti: forse anche innovazione ha raggiunto quel livello, e magari dovremmo sostituirla, ma non sono preoccupato dell'utilizzo improprio del termine. Anzi, vorrei che si facesse più innovazione. Lo preferirei rispetto al diffuso atteggiamento nostalgico che porta a ripresentare ciclicamente la stessa cosa.

 

Quali sono le sfide che attualmente si ritrova ad affrontare a causa del suo approccio al design e dei modi in cui sviluppa il suo processo creativo? Cosa la stimola e cosa invece la annoia?
Mi annoio molto facilmente, ma per fortuna ho costruito un sistema di infrastrutture che mi permette di godere di un certo grado di ibertà. È quasi come se l'azienda fosse stata creata in modo da permettermi di produrre oggetti al ritmo di un brand di moda. Non penso che gli oggetti debbano essere alla moda: devono essere in grado di resistere al tempo, ma noi produciamo per lo più su base stagionale, presentando costantemente novità. Quindi se mi annoio o mi ripeto è solo colpa mia. Questo è il vantaggio di avere un marchio proprio. È un modello significativamente diverso da quello della maggior parte dei product designer che conosco, perché molti di loro lavorano in studi legati a aziende manifatturiere o ad altri marchi. Noi ci distinguiamo perché gestiamo internamente lo sviluppo del nostro prodotto, dalla fase di progettazione a quella di distribuzione e marketing: per questo è così stimolante. Ma anche questo modello nasconde le sue insidie e i suoi incubi. Tanti designer mi dicono: “Oh, dev'essere così bello essere in grado di fare quello che fai, e avere i tuoi prodotti tutti insieme, ed essere in grado di presentarli come un lavoro unitario.” Molti designer producono una lampada con un'azienda, una sedia con un'altra, un accessorio con un'altra ancora, ma alla fine sono tutti pezzi di uno stesso puzzle. Tutti abbiamo magazzini pieni di oggetti che dobbiamo vendere. Insomma, non credo che la perfezione esista, ma quello che mi interessa è vedere se i designer possono agire in un modo un po' diverso e rivendicare la loro identità e il loro punto di vista. Molto spesso i designer sono usati più per la comunicazione che per la creazione, o vengono impiegati per creare meraviglie che funzionano più per il marketing di un'azienda piuttosto che come oggetti che si possono vendere in grandi quantità. 

In un breve video lei descrive il processo della saldatura, e sembra quasi un alchimista. Il know-how di un saldatore dipende in buona parte da esperienze sensoriali. Con questo tipo di esperienza alle spalle le capita mai di tracciare un confine tra il “processo di design” e il “processo di creazione”?
Io lavoro per lo più come si faceva nell'era pre-computer. La fase di progettazione è cambiata molto, ma ancora vedo una distinzione reale tra chi ha iniziato a progettare in un mondo virtuale e chi invece ha dovuto scolpire oggetti partendo da modelli e così via. Quando hai bisogno di creare un modello in scala o un prototipo devi effettivamente creare un oggetto in modo fisico. Quindi per noi il processo credo sia ancora molto tattile. Non credo che la realtà virtuale sostituirà mai quella competenza. Quando progetti qualcosa al computer, per scegliere i materiali basta cliccare su un pulsante e improvvisamente un oggetto diventa trasparente, o di cemento, o di acciaio, o di plastica. Programmi sempre più sofisticati ti diranno se quell'oggetto può funzionare in forma fisica. Ma io ho sempre dovuto sapere come produrrò qualcosa, non mi basta creare un involucro virtuale e trovare il modo di realizzarlo. Questo è molto evidente in campo architettonico, dove ci sono persone in grado di creare edifici straordinari, persone che possono farlo, ma sotto sotto ci sono ancora pezzi di acciaio e di legno, e gli architetti non fanno altro che curvarne pezzetti e aggiungerli a una sorta di finta pelle sulla struttura dell'edificio. Tutto ciò cambierà molto velocemente con l'avvento di metodi di costruzione più sofisticati e convenienti grazie a materiali più interessanti. Questo trasformerà buona parte del mondo costruito, e stiamo iniziando a rendercene conto solo adesso. È quasi giunto un periodo incredibile che potrebbe anche lasciare molti di noi disoccupati, proprio com'è successo nel mondo della musica.

Crediti: immagini cortesia di Tom Dixon Studio

Parlare di design implica spesso parlare di mercato: com'è cambiato questo rapporto nel tempo e cosa crede che ci sia dietro?
Vedo una separazione tra chi lavora nel design e chi invece si occupa di vendite e marketing. Io da sempre dipendo dalle vendite, quindi non ho mai lavorato in modo teorico all'università o in uno studio. Per me è stata sempre questione di creare oggetti e venderli. Quindi non c'è tanto di cui parlare, in un certo senso. Penso che sia molto presente un tipo di design concettuale davvero eroico; al giorno d'oggi è tutto concettuale e spesso non sono poi così importanti la qualità artigiana del designer o le specifiche abilità di ognuno, ma va bene così. Però non vedo, almeno nelle riviste di design, una gran discussione sulla funzionalità o, come negli anni Sessanta, su come il design possa effettivamente cambiare la vita delle persone, che è quello che ho imparato dai grandi designer milanesi di quei tempi. Allora c'era un fervore un po' più rivoluzionario, perché si credeva che il design potesse effettivamente fare qualcosa. In un certo senso è un po' triste, perché si ha l'impressione che il design potrebbe davvero fare una grande differenza in tanti ambiti diversi. Il design ha un raggio d'influenza che non riguarda sempre e solo l'oggetto. Però si sta lavorando molto in termini di progettazione per sistemi, software, metodi e app volti a migliorare l'efficienza degli oggetti, quindi credo che ci sia ancora speranza. 

 

Se dovesse iniziare la sua carriera nel design oggi, da cosa si sentirebbe attratto e perché?
Vale la risposta precedente: voglio cambiare le cose in meglio. Personalmente sarei attratto da cose come la bio-mimetica o i nuovi materiali che stanno emergendo e sono quasi maturi. I procedimenti ecologici, assolutamente. Se lo facessi in modo cosciente, piuttosto che ritrovarmici in mezzo, proverei sicuramente un grande interesse verso ciò che può davvero migliorare la vita delle persone, come la purificazione dell'acqua e nuovi metodi di coltivazione, o i sistemi solari, o ancora l'energia eolica. Qualcosa di utile, accidenti! Insomma, io creo oggetti decorativi e sento che il design potrebbe avere un impatto più pratico e valido sulla vita delle persone. Ma forse mi sto solo preparando al mio prossimo passo. 

Cos'è il lusso oggi?
La riposta classica è “spazio”: tempo e spazio. Penso assolutamente che essere in grado di modellare il proprio ambiente sia un lusso, ed è quello che sto facendo io. Al momento sto costruendo una torre dall'altra parte della strada, siamo a metà, dove vivo nella mia rete di infrastrutture. Ho potuto modellarla a mio piacimento, e credo che questo sia un lusso. Quando vado in posti come Monaco e vedo tutte quelle persone con gli stessi orologi o la stessa automobile o la stessa borsa, penso che invece di usare il loro denaro per rendersi unici lo spendano per diventare tutti uguali. 

Crediti: immagini cortesia di Tom Dixon Studio

La MELT Series 
Tom Dixon con una delle sue creazioni, Melt è una famiglia di lampade la cui forma di sfere distorte (da qui il nome “sciolto”) crea un effetto ottico e giochi di luce eterei sull'ambiente circostante. Dixon è apparso di recente in Most Loved, un documentario sulle sue opere prodotto dalla rivista Dezeen in cui ha discusso la genesi di alcuni dei suoi prodotti più noti. 

TOM DIXON — note biografiche
Tom Dixon è nato in Tunisia nel 1959. Famoso a livello internazionale nel settore del design degli ultimi trent'anni, Dixon è stato insignito di una laurea ad honorem dalla University of the Arts di Londra e si definisce “un anticonformista autodidatta la cui unica qualifica è stata un corso di un giorno nella riparazione di paraurti di plastica.” Le sue maggiori opere sono state in mostra al Centro Pompidou di Parigi e al MoMA di New York. Nel 2002 ha fondato il suo brand omonimo. La critica lo ha descritto come “designer vertebrale” perché si concentra in modo evidente “sulla struttura, o sullo scheletro di un oggetto.”