Da un foglio bianco
Gli scrittori sanno di dover essere aperti alle sorprese per poter dar vita alle proprie storie
Dove scatta quella scintilla che trasforma un foglio bianco in un viaggio dell’immaginazione? Molto spesso scatta per qualcosa che si è sentito di sfuggita, qualcosa di sconvolgente oppure di poco conto. La colpa è tua: ancora una volta hai origliato, tu insieme a quasi tutti gli altri scrittori. Quando si tratta di impicciarsi delle vite degli altri, diventi una spiona seriale che nota fin troppo. La schiena irrigidita. Gli occhi volti altrove. Noti gesti impercettibili che alludono alla storia di uno sconosciuto e ti ispirano a scriverne una tua.
Sei lì, seduta su un treno, ad ascoltare per caso un’affascinante ragazza raccontare all’amica che, quando era piccola, sua madre le ripeteva spesso che non avrebbe mai combinato nulla di buono nella vita, che era solo una perdente. Solo una perdente. Queste parole ti rigirano nella mente e non riesci a liberartene anche se ti piacerebbe. Non ci riesci, perché ormai una domanda si è insinuata nel tuo mondo interiore: come ha potuto una madre essere stata tanto crudele? Perché una madre dovrebbe dire quelle parole a sua figlia? Ora vuoi una risposta e cominci a cercarla nell’unico modo in cui sai farlo.
Ma le scintille scattano in tanti modi, d’altronde gli scrittori sono un gruppo eterogeneo, e ognuno di loro viene chiamato dal foglio bianco in maniera diversa e spesso misteriosa. Toni Morrison, vincitrice del Nobel per la letteratura, spiega che ogni suo libro è scaturito da un’idea trasformatasi in domanda: «un quesito a cui io non so rispondere». Come può un essere umano fare questo a un altro essere umano? Perché lo ha fatto? Come sono riuscite a dimenticarlo?
Per lo scrittore statunitense Jonathan Franzen è diverso. Prima ancora di arrivare al foglio bianco, si sottopone a un processo di auto-esplorazione psichica per scoprire il punto da cui partire. «Vai in profondità e dagli abissi racconti quello che hai scoperto» ha raccontato l’autore di The Corrections e del più recente Crossroads alla rivista statunitense di letteratura The Atlantic.
«Non si tratta di riportare quello di cui tutti parlano o ciò che è già stato pubblicato in internet. In qualità di scrittore, cerco di prestare attenzione a ciò a cui le persone non fanno caso. Provo a monitorare la mia anima il più attentamente possibile, nel tentativo di scovare una strada per esprimere quello che scopro.»
«Trovare dei modi per raccontare ciò che scopro,» in questa frase c’è un’allusione meravigliosamente impercettibile alla lotta che affrontano gli scrittori nel tentativo di dare vita a idee informi e vaghe. Come noto, il semidio letterario angloamericano T. S. Eliot, in Quattro quartetti ha paragonato la sfida «di trovare le parole più adatte» a un’«incursione nell’inarticolato». Parte dell’orrore, ci dice in questa meditazione sul tempo e sulla storia, è che, non appena hai trovato il modo di dire quello che vuoi dire, già non vuoi più dirlo.
Ricordate il mito di Sisifo che spingeva il macigno lungo la china di una collina? La sua fatica non era niente se paragonata a quella degli scrittori.
Eliot aveva una particolare predisposizione per il sarcastico. Per molti scrittori esiste un lato positivo dell’estenuante processo creativo. Seppure rari, vi sono momenti in cui la mente aleggia in uno spazio liminale racchiuso tra il ronzio di un’idea e una frase scritta sul foglio o un’immagine ben definita, mentre il mondo esterno è tenuto temporaneamente a distanza. Questo è il confine del divenire ed è un posto meraviglioso in cui trovarsi. Non si tratta di essere poeti, né di tenere una penna in mano, quello è il luogo in cui tutto può succedere. Certo, potrebbe essere l’istante di gloria prima del baratro, l’attimo di euforia prima che la realtà sferri il colpo e tu non riesca più a esprimere quello che volevi dire. Comunque sia, hai sfiorato l’apice.
D’altronde, la delusione ti accompagna lungo tutta la landa della scrittura. «Scrivi perché hai in mente un’idea che sembra così autentica, così importante, così vera» ha spiegato Khaled Hosseini, autore di Il cacciatore di aquiloni, alla rivista The Atlantic. «Eppure, mentre questa idea attraversa i vari filtri della mente, per giungere alla mano e infine sul foglio o sullo schermo di un computer, subisce una distorsione e ne risulta sminuita.» Le parole scritte a cui sei giunto sono tutt’al più un’approssimazione, se sei fortunato, di quello che volevi dire veramente.»
Possono sembrare parole dure, ma dal punto di vista del lettore, a chi importa? Se una grande idea è stata trasformata in una bella storia coinvolgente e intensa, allora siamo felici e continuiamo a leggere. Parte dell’arte di scrivere è lasciare andare, essere aperti, rinunciare al controllo. Elena Ferrante, pseudonimo di una premiata scrittrice napoletana, è la prima ad ammettere che sin dal principio conosceva la fine dell’intera storia che ha scritto e anche alcuni episodi. Come una volta disse al New York Times, tutto il resto però «è stata una sorpresa e un regalo esigente derivante dal puro piacere di raccontare storie.»
Essere aperti alle sorprese è la materia di cui sono fatte la creatività e la trasformazione. Tornando alla conversazione origliata sul treno, la spiona ero io. E per rispondere alla domanda del perché una madre potesse aver dato della perdente alla propria figlia, ho scritto il racconto di una bambina diventata da adulta una pittrice che dipingeva per trovare la risposta a quel quesito esistenziale e per trasformare i suoi brutti ricordi in brillanti opere d’arte, piene di speranza.