La storia dell’umanità muta costantemente così come il panorama durante un viaggio. Vero è che ci sono elementi costanti e ripetizioni, modelli stagionali, eventi ricorrenti e celebrazioni periodiche, tuttavia ogni esperienza è diversa dall’altra e non ci sono due momenti uguali. La nostra lingua tenta di cogliere questa miscela di omogeneità e diversità, adattandosi col tempo e nel tempo. È ciò che si chiama "diacronia", per usare un concetto più specifico introdotto da Ferdinand de Saussure, il padre fondatore della linguistica. La lingua non dorme mai e cambia costantemente.
Le trasformazioni linguistiche interessano la struttura (sintassi), il significato (semantica) e anche le parole disponibili (lessico) di una lingua. Prima correggevo ogni “ma però” negli scritti dei miei studenti, poiché l’incontro di congiunzioni non è propriamente corretto anche quando si fa della contestazione uno stile di vita. Nel tempo, questa locuzione è diventata di uso comune e oggigiorno gli studenti universitari scrivono con maggiore libertà stilistica senza che siano necessariamente contro qualcosa. Diversi anni fa, la mia segretaria mi confessò che non capiva perché insistessi tanto nell’assicurarmi che le stanze degli hotel avessero una radio. Sul momento rimasi perplesso. Poi realizzai che lei apparteneva a una generazione per cui "wireless" non significava "servizio internet", ma "radio". Mi fece venire in mente la parola inglese "computer" che, prima di Turing, si riferiva a una persona che eseguiva i calcoli. Nell’Inghilterra degli anni ‘70 era ancora possibile trovare offerte di lavoro per "computer". Sono contento di non aver mai chiesto alla mia vecchia segretaria di comprarmi un "computer". Solo Dio sa che cosa avrebbe pensato di me.
La lingua cambia ancora più visibilmente, quando introduciamo nuove frasi, slogan o modi di dire. La filosofia viene spesso ricordata in termini di aforismi filosofici: «conosci te stesso», «penso, dunque sono» e così via. Le pubblicità possono essere altrettanto formidabili. Quando tenevo il corso di logica all’università, spiegavo l’importanza cruciale di un utilizzo della lingua preciso e chiaro per esprimere le idee, indipendentemente da quanto fossero eccezionali e complesse. Per chiarire il concetto facevo l’esempio del famoso slogan della Pirelli «la potenza è nulla senza controllo». Comparavo la cosiddetta filosofia continentale, che il più delle volte è molto profonda e ricca di suggestioni, ma oscura e poco comprensibile nel suo linguaggio, alla potenza senza controllo, mentre paragonavo la filosofia analitica, così logica e spesso priva di contenuti interessanti e rilevanti, al controllo senza potenza. Dicevo ai miei studenti di seguire il consiglio della Pirelli: potenza e controllo. L’immagine di Carl Lewis ai blocchi di partenza con ai piedi un paio di scarpe con il tacco esplicava il concetto più vividamente di quanto avessi mai potuto sperare.
A volte i significati delle parole cambiano, ma se la trasformazione riguarda la terminologia scientifica influisce ben poco sulla vita di tutti i giorni. Il concetto di "inerzia" è alquanto mutato tra il prima e il dopo Newton o Einstein, eppure continuiamo a usare la stessa parola. Non importa cosa ci insegna l’astronomia, insistiamo imperterriti a dire che «il sole sorge» al mattino e gira attorno alla Terra. Invece una rivoluzione culturale, come quella digitale, cambia di molto la questione, perché le trasformazioni linguistiche vengono percepite da tutti. Negli anni ‘80 non c’erano le "app" e "palmare" non si riferiva a un computer che può essere tenuto nel palmo di una mano. Oggi con un palmare possiamo "googlare", "twittare", "chattare" o "postare", tutti verbi che non avrebbero avuto alcun senso qualche decennio fa, quando il nome "amazon" poteva fa pensare tutt’al più a un fiume o a una leggendaria donna guerriera.
La lingua non segue solo le nostre esperienze e i loro intricati percorsi, le plasma rendendole comprensibili e talvolta ne cambia anche la forma. La presenza o l’assenza di parole ed espressioni rappresenta pertanto un limite del nostro modo di percepire le differenze, comunicare con precisione i significati e creare nuove realtà. Prima che venisse coniato il termine "utopia", era meno facile parlare di una società ideale, anche se filosofi del calibro di Platone o Agostino lo avevano fatto. Di certo, era molto più difficile scartare un progetto in quanto considerato puramente "utopistico", cosa che oggi può benissimo capitare a una pessima presentazione di una "città intelligente" del futuro. Come scrisse Wittgenstein «i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo».
Una frase latina ci ricorda che «nomina sunt consequentia rerum» (i nomi sono conseguenti alle cose). Giusto, ma è vero anche il contrario. Si può decidere di guardare film per ore e ore senza pausa anche perché Netflix ha una categoria chiamata "Bingeworthy TV..." (ovvero i film e le serie da divorare). Ci sono casi più significativi in cui facciamo letteralmente le cose con le parole. Stabiliamo che qualcosa accadrà attraverso un giuramento o una promessa. Diamo un nome ai neonati con una cerimonia verbale. Esistono paesi in cui si può essere condannati a morte per blasfemia. Contratti, testamenti, regolamenti di giochi, leggi e verdetti delle corti sono tutti casi quotidiani di fatti conseguenti alle parole. Questo utilizzo della lingua è chiamato "performativo": le parole non descrivono semplicemente il mondo, lo cambiano. Concetto, questo, che sembra essere alquanto intuitivo. In alcune culture, questo ruolo performativo può spingersi oltre, fino ad arrivare a un uso magico delle formule, alla credenza che se qualcuno riesce a dire le parole corrette nella sequenza giusta, allora le cose cambiano o si avverano. «Abracadabra» o «bibbidi-bobbidi-bu» e la zucca si trasforma in una carrozza. Almeno così di dice.
Oggigiorno, questo ruolo trasformativo della lingua è ovunque. Viene chiamato codice e governa il mondo che sta diventando sempre più una "infosfera". Dai minuscoli "script" (piccole parti di codice) fino agli immensi e complicati programmi, i linguaggi formali indicano ciò che può succedere e come può succedere a un mondo digitale, in cui noi agiamo come divinità minori; se vogliamo accendere la luce, ci basta dire «fiat lux», a farlo ci pensa il nostro assistente digitale. La logica, la matematica e la statistica ci aiutano a costruire le nostre realtà, non solo a descriverle o interpretarle. Oggi «apriti sesamo» potrebbe essere una password. Non sorprende che tutto sembri piuttosto magico.
Abbiamo bisogno di vecchie parole per capire e crearne di nuove. E abbiamo bisogno di tutti i tipi di parole per capire e dare forma alla realtà. Questo è il motivo per cui l’istruzione si concentra principalmente sull’insegnare a leggere e scrivere nei vari linguaggi informativi: dalla lingua madre alle lingue straniere, dal linguaggio della musica a quello della programmazione, dal linguaggio dell’architettura a quello della chimica e della biologia, dalla matematica e dalla statistica al linguaggio della storia. I linguaggi sono gli strumenti più potenti di cui dispongono le nostre menti. La fregatura con i linguaggi è però che spadroneggiano su coloro che non li padroneggiano.